La prelibatezza nostrana del formaggio con le larve
In teoria il “casu marzu” non si potrebbe vendere, in pratica procurarselo non è poi così difficile, specialmente in Sardegna

Tra le tante stranezze esposte al Disgusting Food Museum di Malmö, il museo svedese dedicato alle pietanze più insolite e visivamente ripugnanti al mondo, c’è anche un pezzo di un formaggio che in Italia è ben noto e molto apprezzato. Il cosiddetto casu marzu è un pecorino che viene fatto colonizzare volontariamente da larve vive, e chi lo osserva per la prima volta potrebbe rimanere turbato dai loro movimenti, visibili sia sulla superficie che all’interno della pasta.
È associato soprattutto alla tradizione culinaria della Sardegna, dove viene prodotto, consumato e commercializzato da secoli, nonostante la vendita sia vietata da leggi italiane ed europee.
Il casu marzu si ottiene da una forma di formaggio, nella maggior parte dei casi di pecora, che non ha completato la stagionatura, e che viene lasciata all’aperto o esposta in ambienti ben ventilati per attirare una mosca, la Piophila casei, che vi depone le uova all’interno. Quando le uova si schiudono, le larve escono e iniziano a lavorare la pasta per nutrirsene, rendendola molto più morbida e modificandone anche il sapore, che diventa intenso e pungente.
Il risultato è un composto cremoso e molto aromatico, ritenuto una prelibatezza da chi lo conosce e ci si è abituato, ma che può generare una certa repulsione in chi lo assaggia per la prima volta. L’ingestione delle larve ancora vive è considerata parte integrante dell’esperienza: per alcuni è impensabile mangiarlo senza, per altri è preferibile rimuoverne il più possibile prima di portarlo in tavola.
Le normative italiane ed europee non consentono la commercializzazione del casu marzu a causa dei potenziali rischi sanitari, tra cui infezioni intestinali eventualmente causate dall’ingestione di larve vive, la presenza di microrganismi patogeni e le condizioni di produzione non standardizzate, che possono favorire contaminazioni batteriche. Tuttavia, sebbene questi pericoli siano ipotizzati a livello teorico, non esistono prove concrete che colleghino direttamente il consumo di casu marzu a casi reali di infezione o intossicazione.
Nonostante questi divieti, procurarsi il casu marzu non è poi così difficile: basta una rapida ricerca online per imbattersi in blog e forum di discussione in cui utenti in partenza per la Sardegna si scambiano dritte sui posti in cui poterlo trovare. C’è chi consiglia di visitare qualche pascolo dell’entroterra e chiedere al pastore di turno, con la dovuta discrezione, se per caso ha da parte qualche forma da vendere; chi suggerisce di affidarsi al passaparola tra gli abitanti del posto; e chi ancora indica alcuni agriturismi di fiducia in cui il casu marzu viene servito fuori menù. Durante un pranzo può capitare infatti che compaia in modo “non ufficiale” tra gli antipasti, spesso spalmato su una fetta di pane carasau, come se fosse un omaggio servito agli ospiti.
Antonello Ruiu, un produttore di formaggi sardo, dice che il casu marzu dalle sue parti si chiama casu frazigu, e la sua lavorazione si tramanda di generazione in generazione. «È un rito che si ripete ogni anno nei mesi più caldi: si produce in famiglia e si mangia prevalentemente con amici e parenti, anche se ovviamente le vendite sottobanco non mancano». Ruiu gestisce anche un agriturismo, e spesso le richieste non si fanno attendere: «non posso venderlo o inserirlo nel menù ma, se qualcuno mi chiede di assaggiarne una fetta, lo accontento: la scelta e la responsabilità di mangiarlo, però, restano sue». Ruiu stima il prezzo del casu marzu venduto “clandestinamente” in circa 25 euro al chilo.
Dario Dongo, avvocato e giornalista esperto in diritto alimentare, dice che anche se negli anni il casu marzu è stato spesso descritto come un formaggio «illegale», in realtà le cose non stanno proprio così. Questo perché la produzione e il consumo non sono proibite da un esplicito divieto: «se una persona lo prepara in casa, per sé o per la propria famiglia, non commette alcun reato».

(ANSA/Fabrizio Fois)
Nel 2005 la Sardegna ha inserito il casu marzu tra i cosiddetti PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali), un riconoscimento che viene attribuito a prodotti legati alla cultura locale e le cui metodologie di produzione, conservazione e stagionatura vengono praticate continuativamente da almeno 25 anni. Questo riconoscimento può consentire, in alcuni casi, l’accesso a deroghe alle normative comunitarie in materia di igiene alimentare, che in genere vietano la commercializzazione di prodotti infestati da parassiti.
Nello stesso anno, l’Università di Sassari avviò un progetto sperimentale per dimostrare che il casu marzu poteva essere prodotto in condizioni igienicamente sicure. Le larve della Piophila casei vennero allevate in laboratorio e inserite in modo controllato nel formaggio, replicando così il processo tradizionale in un ambiente sanificato e sterile. L’obiettivo era definire un metodo affidabile, sicuro e ripetibile, utile a sostenere l’eventuale richiesta di una deroga ai divieti europei: finora però non è successo.
Secondo Dongo, nel caso del casu marzu anche la definizione di «infestazione» sarebbe impropria, perché questa espressione «rimanda a un qualcosa di accidentale, o a un qualche tipo di inadempienza da parte del produttore: questo formaggio è però il risultato di una colonizzazione volontaria, volta a realizzare un determinato processo di trasformazione dell’alimento, che è una cosa un po’ diversa».
Anche se il casu marzu sardo è la tipologia più famosa, il formaggio con le larve viene prodotto anche in altre regioni italiane: in Abruzzo lo chiamano “marcetto”, in Basilicata “cas cu i vierm”, nella zona di Bari “frmag punt”, in Calabria “casu du quagghiu”, in Veneto “formaio coi bai”, mentre a Genova c’è il “gorgonzola coi grilli”. Anche la Corsica mantiene una tradizione simile con il “casgiu merzu”, un formaggio fermentato in modo spontaneo grazie alla presenza di larve, consumato ancora oggi nelle aree rurali dell’isola. «Queste varianti regionali dimostrano che l’uso di insetti nella trasformazione del formaggio non è un’eccezione culturale: fa parte di un sapere contadino più ampio, radicato nella memoria di diverse comunità», dice Dongo.
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