Vendere l’ex ILVA di Taranto è una missione quasi impossibile

Per i motivi che si possono immaginare, legati ai conclamati danni ambientali, ma anche per altri meno scontati

di Francesco Gaeta

Una vista del quartiere Tamburi e dell’ex Ilva
(Ivan Romano/Getty Images)
Una vista del quartiere Tamburi e dell’ex Ilva (Ivan Romano/Getty Images)
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Da molti mesi il governo sta provando a vendere l’ex ILVA di Taranto, l’impianto siderurgico più grande d’Italia e tra i più grandi d’Europa, ma farlo è tutt’altro che facile. Dopo vari cambiamenti nella proprietà, Acciaierie d’Italia – questo è l’attuale nome della società, anche se quasi tutti la chiamano ancora ILVA – è gestita dallo Stato in regime di amministrazione straordinaria, una procedura per ristrutturare o liquidare le grandi imprese. La trattativa più concreta in corso è con gli azeri di Baku Steel, una società relativamente piccola per volumi produttivi e che vorrebbe aprire stabilimenti in Europa.

È un affare rilevante da un punto di vista politico, visto che l’investimento di Baku Steel sarebbe sostenuto dal governo dell’Azerbaijan, ed è potenzialmente profittevole perché l’Azerbaijan possiede molto gas naturale, cosa che all’Italia serve (ma quella è un’altra questione: per ora si parla solo di acciaio). È anche un affare economicamente rilevante: si parla di una cifra intorno al miliardo di euro, anche se l’offerta sarà verosimilmente più bassa date le condizioni in cui si trova l’azienda, che la rendono assai poco attraente sul mercato.

Da un certo punto di vista, infatti, l’ex ILVA di Taranto è una sorta di impianto “fantasma”, nonostante la sua imponenza. Nel senso che non dovrebbe esistere, almeno non in questa forma.

È enorme, una sorta di città recintata che sta dentro la vera città. Le ciminiere dei suoi altoforni sono segnaposti con cui orientarsi quando ci si sposta, e in città l’acciaio è ovunque, dai nastri sopraelevati che lo trasportano dal porto, al colore dei quartieri più vicini all’acciaieria, arrossati dalla polvere di ferro che è uscita per anni dagli altoforni. La fabbrica insomma c’è, è una presenza, lascia un’impronta sul resto. Eppure nel luglio del 2012 venne messa sotto sequestro da una giudice, Patrizia Todisco, per via delle sostanze contenute nei fumi di lavorazione: diossina, metalli pesanti, benzene, polveri sottili, anidride solforosa.

L’ILVA fu insomma accusata dalla magistratura di produrre acciaio violando le normative ambientali, con effetti negativi documentati sulla salute della popolazione. Ma prima il governo con un decreto, e poi il parlamento, concessero la «facoltà d’uso» degli impianti nell’attesa di una «messa a norma» che però non è stata mai completata.

Per l’impianto, ancora oggi sotto sequestro con facoltà d’uso, sono arrivati da allora 18 decreti cosiddetti “salva ILVA”, con cui i governi di varie maggioranze hanno prorogato questo stato di eccezione e stanziato fondi, per consentire all’impianto di continuare a lavorare. È questo il motivo per cui l’impianto esiste ancora. L’ultimo provvedimento è stato annunciato dal governo lunedì 9 giugno, durante un ennesimo incontro con i sindacati in cui sono stati promessi altri 200 milioni di euro. Oltre questo vizio di origine, che in tutto questo tempo ha opposto politica nazionale e magistratura locale, ci sono altre cose che rendono poco appetibile la fabbrica per un acquirente.

Scarsa manutenzione
Il primo è che l’impianto di Taranto lavora attualmente a scartamento ridotto per problemi tecnici. Nel 2024 ha prodotto meno di 2 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, contro i 6 milioni che si stimano necessari a coprire i costi. Non si deve a un calo della domanda di acciaio. Il problema è che a Taranto non si produce di più perché gli altoforni sono, come dicono qui, “obsoleti”: la manutenzione che è stata fatta negli anni non è stata adeguata.

Un altoforno è la struttura più rilevante di un impianto siderurgico, quella in cui avviene la fusione del minerale che diventa ghisa, da cui poi si ricava l’acciaio. È una specie di grande bottiglia di acciaio foderata all’interno da uno strato di mattoni refrattari, in grado di tollerare altissime temperature. Ogni vent’anni circa questo cappotto interno va ristrutturato: l’operazione si chiama “fine campagna” ed è essenziale per evitare danni e rischi alle persone.

Una vista aerea dell’ex ILVA: al centro, davanti alle tre ciminiere, si vede uno degli altoforni (Fabrizio Villa/Getty Images)

A Taranto c’è chi dubita che questo sia stato fatto in modo efficace, e anche per questo motivo soltanto uno dei cinque altoforni è in attività in questo momento. Gli altri sono inutilizzabili o non sono sufficientemente sicuri. In uno, a maggio, c’è stato un incidente che ha obbligato la magistratura a metterlo sotto sequestro. Un altro non è agibile perché durante la precedente gestione, quella della società franco-indiana ArcelorMittal, il fermo della lavorazione non era stato fatto in modo corretto.

Questo calo di produttività della cosiddetta “fase a caldo” si riflette sulla “lavorazione a freddo”, quella in cui i semilavorati di acciaio prendono forme e spessori differenti a seconda delle destinazioni: rotaie e barre per l’industria dei trasporti; fili e tubi per le costruzioni; lamiere e nastri per l’automotive. I laminatoi e i tubifici a Taranto sono fermi da tempo, perché dati i bassi volumi dei semilavorati bastano gli impianti di altri stabilimenti di Acciaierie d’Italia, collocati al Nord.

In sintesi: chi comprerà l’impianto dovrà spendere molti soldi per ammodernare e rimettere in efficienza il ciclo produttivo da monte a valle e rendere così l’impianto economicamente redditizio. 

E poi ci sono i lavoratori
Alle difficoltà produttive si lega la questione occupazionale. L’ex ILVA dà lavoro a circa 8.000 addetti diretti. Sono operai la cui età media è intorno ai cinquant’anni, perché in gran parte sono entrati molto giovani con l’ultima grande tornata di assunzioni che avvenne intorno al 2000.

Sono troppi per gli attuali volumi produttivi, persino i sindacalisti intervistati dal Post ne sono consapevoli.

Il governo ha avviato la cassa integrazione per 3.500 lavoratori, ma a questi si sommano altre 1.600 persone (non comprese negli 8.000) che il gruppo ArcelorMittal al momento dell’ingresso nella proprietà nel 2018 si riservò di assumere in caso fosse stato possibile aumentare la produzione a 8 milioni di tonnellate all’anno, cosa mai avvenuta. Secondo gli standard internazionali, in base alle più moderne tecnologie servirebbero 1.000 addetti per ogni milione di tonnellate di acciaio prodotte in un anno. Mantenere bassi i livelli produttivi significa fare i conti in futuro con molti esuberi. Per un compratore questo significa affrontare e gestire molti conflitti interni.

Bobine di acciaio stoccate nell’area dell’ex-Ilva all’interno del porto di Taranto, 15 novembre 2019 (Ivan Romano/Getty Images)

In rosso
Il fatto che l’impianto sia da tempo sottodimensionato in termini produttivi e sovradimensionato in termini occupazionali spiega lo stato finanziario, che da anni è stabilmente negativo. Dal 2012 l’impianto ex ILVA ha accumulato perdite variabili tra i 500 e gli 800 milioni di euro all’anno. Attualmente, secondo fonti sindacali, ammontano a circa un milione e mezzo al giorno. Questo pone un problema di liquidità (pochi soldi in cassa per pagare quel che serve, dai materiali alla manutenzione al personale), e l’ultimo prestito di 100 milioni concesso dal governo dovrebbe bastare solo per qualche mese.

Eppure, di soldi pubblici qui ne sono stati investiti parecchi. Lo Stato, che era già entrato una prima volta nella gestione nel 2013 dopo l’uscita della famiglia Riva, ha speso da allora oltre 1 miliardo di euro, sotto forme diverse: soprattutto “prestiti ponte”, cioè appunto finanziamenti temporanei per coprire esigenze immediate di liquidità, e ricapitalizzazioni.

C’è poi un capitolo quantitativamente minore, ma significativo per le ricadute sul territorio. Riguarda le imprese che negli ultimi anni hanno fornito beni e servizi, per esempio la manutenzione e la pulizia degli impianti. Dopo l’era della famiglia Riva, l’azienda è entrata una prima volta in amministrazione straordinaria, cioè è stata considerata a tutti gli effetti insolvente. In questi casi la legge prevede che i creditori, cioè lavoratori, fornitori e imprese dell’indotto, debbano presentare una domanda al tribunale, chiamata “insinuazione al passivo”, per provare a farsi riconoscere quanto spetta loro.

Decine tra persone e aziende hanno presentato queste domande al tribunale di Milano, che era quello competente, chiedendo il pagamento di stipendi arretrati, ferie non godute, TFR, permessi retribuiti e fatture mai saldate. Ancora oggi, dopo anni, molti di quei crediti non sono stati pagati. Secondo stime sindacali, l’importo complessivo supera i 150 milioni di euro. In pratica una parte significativa dell’indotto vive da anni in una condizione di attesa, senza sapere se e quando verrà rimborsata: un altro problema di cui dovrebbe occuparsi un’eventuale nuova proprietà.

Gli ormai famigerati danni ambientali
La principale questione che complica molto la trattativa di vendita agli azeri di Baku Steel, e di cui si parla da decenni sia a Taranto che nel resto del paese, è quella ambientale.

Nel corso degli anni numerosi studi hanno documentato gli impatti ambientali dell’ex ILVA e lo stato di sofferenza sanitaria della popolazione nel territorio. Il più noto è lo studio “Sentieri” curato dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha rilevato un eccesso di mortalità a Taranto per tumori polmonari, malattie respiratorie e cardiovascolari, specie nei quartieri più vicini all’impianto: Tamburi, Paolo VI e Borgo.

Un’indagine epidemiologica firmata da Francesco Forastiere aggiornata al 2016 ha mostrato una correlazione tra l’esposizione agli inquinanti industriali e l’aumento di quelle patologie. Secondo il rapporto sul danno sanitario dell’ARPA Puglia e della ASL Taranto del dicembre scorso, intorno al sito «si registrano eccessi rispetto al dato provinciale o regionale di mortalità e ospedalizzazione per diverse patologie oncologiche (fra cui il tumore maligno della trachea, dei bronchi e del polmone, e il tumore maligno della pleura) e non oncologiche (in particolare le malattie cardiovascolari e le malattie respiratorie)».

Una targa su un condominio di Taranto (Francesco Gaeta/il Post)

Il rapporto dice che tutto questo dovrà essere tenuto presente nella nuova Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) dello stabilimento. Si tratta di un documento che autorizza il funzionamento degli impianti industriali, e stabilisce limiti alle emissioni, prescrizioni tecniche e tempi di adeguamento che spettano alla proprietà. Per lo stabilimento di Taranto è scaduta nell’agosto del 2023 e il suo rinnovo passa ora attraverso una procedura complessa che coinvolge un gruppo istruttore composto da 4 rappresentanti nominati dal governo nazionale, e da 4 rappresentanti degli enti locali. Il gruppo ha predisposto una bozza con 477 prescrizioni, alcune delle quali prevedono costi elevati che il gestore, vecchio o nuovo che sia, dovrebbe sostenere.

In particolare, la Regione Puglia ha chiesto di subordinare il via libera alla decarbonizzazione dell’impianto, cioè all’abbandono degli altoforni e al passaggio ai forni elettrici, che hanno un minore impatto ambientale. È una trasformazione che richiederebbe anni, investimenti molto alti e un cambiamento profondo dell’organizzazione del lavoro: secondo gli standard industriali, con i forni elettrici servono molti meno addetti.

Per questo la nuova AIA non è solo un problema ambientale, ma anche politico e occupazionale. Finché non sarà chiaro cosa prevede nel dettaglio – il documento deve avere l’approvazione finale della Conferenza dei servizi, l’organo tecnico-amministrativo che coordina i pareri di tutti i soggetti coinvolti – nessun acquirente potrà sapere con certezza quanto acciaio sarà possibile produrre a Taranto, con quali tecnologie e con quanti lavoratori.

Cittadini contro proprietà (cioè il governo)
Le questioni ambientali e le autorizzazioni per l’impianto sono arrivate anche alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, l’organo che garantisce un’applicazione uniforme della normativa comunitaria in tutti gli Stati membri. Quando un giudice nazionale ha dubbi sull’interpretazione di una norma europea, può rivolgersi alla Corte con una “questione pregiudiziale”: la risposta vincola tutti i tribunali nazionali.

In questo caso il giudice nazionale era il tribunale di Milano, competente sull’ex ILVA, a cui si erano rivolti alcuni cittadini di Taranto che chiedevano di fermare gli altoforni e le acciaierie, cioè la “parte a caldo”, che è quella inquinante. I quesiti posti erano tre: se si può autorizzare un impianto potenzialmente dannoso alla salute senza una preventiva valutazione del danno sanitario; se si possono omettere sostanze dalla valutazione delle emissioni ambientali; se è lecito differire l’adeguamento dell’AIA, malgrado pericoli riconosciuti per la salute. A giugno dell’anno scorso, la Corte ha risposto con tre no. Dopo questo parere, tocca ora al tribunale di Milano decidere se accogliere la richiesta di sospensione finché non sarà rilasciata un’AIA conforme. È una decisione che può avere implicazioni sulla vendita: l’acquirente dovrà avere chiaro se può davvero mantenere l’area a caldo alle attuali condizioni, e cosa vorrà dire in concreto adeguarle.

Quest’ultima vicenda che ha opposto di fronte a un giudice cittadini di Taranto e proprietà, ovvero il governo centrale, di fronte alla Corte europea, sintetizza alcuni aspetti paradossali di questa storia. L’ex ILVA è un pezzo dell’industria pesante del Novecento, dunque altamente inquinante. Nelle sue varie fasi ha prodotto un’estesa occupazione per il territorio, molti utili ai soci privati che l’hanno detenuta e spesso sfruttata, parecchi costi per lo Stato che ha provato a tenerla in vita.

È una storia che a un certo punto ha chiamato in causa la magistratura, che dovrebbe decidere sulla base di interessi divenuti nel tempo sempre più divergenti e quasi inconciliabili. Non è detto che vendere l’impianto, semmai fosse possibile, sia la soluzione migliore per conciliare questi interessi.

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