Per Elly Schlein e Maurizio Landini sarà difficile difendere i risultati dei referendum

Il quorum non è stato neanche lontanamente raggiunto, e gli altri risultati rivendicati dal PD si basano su spiegazioni deboli e contorte

(Marco Di Gianvito/ZUMA Press Wire/ANSA)
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Nelle scorse settimane non c’era nessun dirigente del Partito Democratico o della CGIL che privatamente dicesse di credere davvero nel raggiungimento del quorum ai referendum sulla cittadinanza e sul lavoro, anche se le dichiarazioni pubbliche poi erano diverse: chi aveva proposto i referendum (la CGIL per i quattro quesiti sul lavoro), e chi faceva campagna a favore (il PD per tutti e cinque), era insomma piuttosto disilluso sulla possibilità di convincere più di 25 milioni e mezzo di persone ad andare a votare su quesiti che erano considerati perlopiù difficili da comprendere. L’affluenza è stata di poco inferiore al 30 per cento, oltre 20 punti sotto il quorum che avrebbe reso validi i referendum.

Nella segreteria del PD, tra gli esponenti più vicini alla leader del partito Elly Schlein, era però stata elaborata una possibile narrazione positiva della sconfitta: il risultato dei referendum sarebbe stato soddisfacente se fossero andate a votare più persone di quelle che votarono la coalizione di destra alle ultime elezioni politiche nel 2022, quindi più di 12,3 milioni di persone. Il capogruppo del PD in Senato Francesco Boccia, tra i dirigenti più vicini a Schlein, qualche giorno fa aveva detto che se fosse successo sarebbe stato «un primo avviso di sfratto a Giorgia Meloni».

L’affluenza è stata effettivamente maggiore di così, ma la conclusione che sta cercando di trarre il PD da questo dato è decisamente spericolata. Innanzitutto perché presuppone che chi è andato a votare sia un potenziale elettore di centrosinistra, o che lo sia perlomeno chi ha votato per il “Sì”: lo hanno suggerito a risultato acquisito sia Boccia che Schlein, ma anche un altro dirigente a lei vicino come Igor Taruffi. Alla fine in Italia (quindi senza considerare i residenti all’estero, come per i 12,3 milioni che votarono la destra nel 2022) hanno votato in tutto poco più di 14 milioni di persone, e nei quattro referendum sul lavoro hanno votato per il “Sì” poco più di 12 milioni di persone. Il quesito che ha ottenuto il maggior numero di Sì è stato il primo, con 12,24 milioni di voti a favore, e dunque neppure in questo caso la soglia minima indicata da Boccia è stata raggiunta, sia pur di poche decine di migliaia di voti.

Ma sul quinto quesito in particolare, quello sulla cittadinanza, c’è un cortocircuito evidente: su questo referendum infatti i “No” sono stati vicini al 35 per cento, molto più di quanto ci si aspettasse e su un tema molto identitario per il PD e per il centrosinistra. Sono oltre 5 milioni di voti contrari: tutte queste persone almeno su questo tema la pensano in modo molto diverso sia da Schlein che da Landini, che avevano fatto campagna per 5 “Sì”.

Nel suo primo commento ai risultati, Schlein ha comunque insistito subito su questa tesi: «Per questi referendum hanno votato più elettori di quelli che hanno votato la destra mandando Meloni al governo nel 2022», ha detto. In questo e in altri commenti successivi ha invece evitato di parlare di quante persone hanno votato “Sì” al referendum sulla cittadinanza, visto che sono meno di 10 milioni, e quindi anche decisamente meno dei 12,3 milioni che votarono la destra nel 2022. A una domanda diretta sul risultato del referendum sulla cittadinanza, in un’intervista su Repubblica, Schlein si è limitata a rispondere che i “Sì” comunque «sono stati sempre più dei “No”».

Il PD sta puntando su questa idea anche in alcuni post propagandistici sui social network:

Nella serata di lunedì invece Maurizio Landini, il segretario della CGIL e principale promotore dei referendum sul lavoro, ha parlato in una conferenza stampa ammettendo in modo più diretto che «il nostro obiettivo non l’abbiamo assolutamente raggiunto», cioè il quorum. Anche lui si era comunque posto come obiettivo minimo di superare le 12,3 milioni di persone votanti, e nella conferenza ha sottolineato come questo voto testimoni la richiesta di un cambiamento da parte di molte persone.

La tesi sostenuta da Schlein va considerata come un’analisi politica di parte: di quelle che assumono una maggiore o minore validità a seconda del punto di vista di partenza. In un paese con percentuali di astensionismo sempre molto alte, aver spinto a votare oltre 14 milioni di persone certamente non è una cosa banale. Quello di Schlein però è soprattutto un modo per giustificare una sconfitta che nei dati è molto netta: il quorum non è stato raggiunto per quasi 20 punti.

Ma in ogni caso, anche questo presunto risultato politico è difficilmente sostenibile per molte ragioni, e diversi elementi spiegano perché sarà difficile per Schlein difendersi dalle critiche che le stanno già arrivando, anche dall’ala riformista e moderata del suo partito, contraria fin dall’inizio a sostenere i referendum (dal senatore Filippo Sensi all’eurodeputata Pina Picierno).

Prima di tutto la comparazione di risultati elettorali così diversi ha ben poco senso. Un’elezione politica come quella del 2022 ha regole del tutto diverse da quelle di un referendum: nel primo caso conta prendere più voti dell’avversario, contano le alleanze che si sono costruite tra i partiti, conta il confronto nei vari seggi e nelle varie circoscrizioni elettorali; nel caso del referendum tutto ciò viene superato dall’esigenza di raggiungere il quorum, e dunque conta anzitutto mobilitare un elettorato spesso eterogeneo ma che si riconosce intorno a un’istanza, a un quesito. Tutti gli analisti politici suggeriscono sempre di essere molto cauti nel confrontare il risultato di un’elezione locale con quella nazionale, l’esito delle regionali con quello delle europee: è ancora più spericolato equiparare in modo così diretto un’elezione politica per il parlamento e un referendum.

In secondo luogo, se davvero si volesse ipotizzare che l’affluenza al referendum possa coincidere con un potenziale elettorato del centrosinistra, si arriverebbe a delle conclusioni un po’ paradossali. Per esempio, in regioni che negli ultimi anni sono state governate dal PD, come Campania e Puglia, c’è stata un’affluenza rispettivamente del 29,8 e del 28,6 per cento, inferiore a regioni come Lombardia (30,7 per cento) dove il centrodestra vince piuttosto agevolmente da 30 anni.

In Liguria, sempre per fare altri esempi, hanno votato al referendum grosso modo 480mila persone, cioè il 35 per cento degli elettori (la quarta miglior regione, in questo senso, dopo Toscana, Emilia-Romagna e Piemonte). Alle regionali dello scorso ottobre per il centrosinistra guidato da Andrea Orlando votarono 282mila persone, e vinse il centrodestra, con Marco Bucci, grazie a 291mila voti. Bisognerebbe dunque ipotizzare che nel giro di appena 8 mesi il centrosinistra abbia quasi raddoppiato i consensi in Liguria, e che se si rivotasse oggi vincerebbe con un distacco enorme.

Nel comune di Genova due settimane fa il centrosinistra ha vinto con il 51,5 per cento in elezioni con un’affluenza del 51,9 per cento, e la sindaca Silvia Salis ha ottenuto 124mila voti; nel comune di Genova hanno votato al referendum 192mila persone, e bisognerebbe dunque supporre che in quindici giorni l’elettorato di centrosinistra in città sia aumentato, di colpo, di circa il 50 per cento. Si potrebbero fare altri esempi simili, ma il punto è che un paragone del genere non regge.

È invece assai più probabile che ai referendum sul lavoro e sulla cittadinanza siano andate a votare, e in misura abbastanza rilevante, persone che ultimamente non hanno votato per il centrosinistra: o perché hanno votato per partiti di diverso orientamento, o perché in altre elezioni si sono astenute.

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