Chi sono le persone di cui parla il referendum sulla cittadinanza

Ossia quelle che potrebbero chiederla subito se vincesse il “Sì“: dove vivono, che lavori fanno, e quali sono le difficoltà nella loro vita quotidiana?

di Luca Misculin

(Piero Cruciatti / LaPresse)
(Piero Cruciatti / LaPresse)
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Uno dei quesiti dei referendum per cui si voterà fra l’8 e il 9 giugno riguarda la riduzione del tempo necessario per chiedere la cittadinanza italiana, per gli stranieri che provengono da paesi che non fanno parte dell’Unione Europea. Oggi è di 10 anni di residenza regolare ininterrotta in Italia, il referendum vorrebbe ridurlo a 5 anni, cioè la soglia prevista in diversi paesi dell’Europa occidentale. Sono circolate molte stime sul numero di persone che potrebbero chiedere subito la cittadinanza se vincesse il “Sì”: qualcuno ha parlato di 2,5 milioni, un rapporto piuttosto completo del centro studi IDOS stima un massimo di 1,7 milioni, e circolano stime ancora diverse.

Si è parlato poco però di chi siano esattamente queste persone: da dove arrivano, in che condizione si trovano, quanti anni hanno e da quanto vivono in Italia, quali problemi concreti affrontano per via della trafila per ottenere la cittadinanza, più lunga e complicata rispetto a diversi altri paesi europei.

Non esistono stime precise, ma incrociando informazioni e testimonianze si può mettere insieme un quadro abbastanza completo.

Nel gergo burocratico-amministrativo si chiamano “soggiornanti di lungo periodo”, dal nome dell’omonimo permesso di soggiorno, il più lungo che si può ottenere in Italia. Lo si può chiedere dopo 5 anni di residenza regolare in Italia. Non tutti però, ovviamente, ne hanno uno: per ottenerlo serve rispettare criteri piuttosto rigidi.

I “soggiornanti di lungo periodo” maggiorenni hanno quasi tutti un lavoro – altrimenti, per via della legge italiana, rischiano di perdere il permesso di soggiorno – e vivono in Italia ormai da diversi anni, come suggerisce la loro definizione.

La maggior parte di loro abita nel Nord Italia. ISTAT stima che quasi il 60 per cento delle persone che di recente hanno acquisito la cittadinanza italiana – e quindi in moltissimi casi hanno un passato da “soggiornante di lungo periodo” – si concentri in quattro regioni del Nord: Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte. IDOS invece ritiene che fra le persone che potrebbero chiedere subito la cittadinanza se vincesse il “Sì ”al referendum circa una su quattro, più di 371mila persone, viva in Lombardia. Appena l’1,2 per cento, 17.200 persone, abitano in Calabria.

Non esistono informazioni attendibili sul reddito dei “soggiornanti di lungo periodo”, ma possiamo ipotizzare che siano più poveri della media: nel 2023 il 40,1 per cento degli stranieri regolarmente residenti in Italia era a rischio di povertà o esclusione sociale, contro il 20,7 per cento di italiani. Sempre nel 2023 lo stipendio medio annuo dei lavoratori stranieri cosiddetti “extracomunitari” è stato più basso del 30,7% rispetto alla media di tutti i lavoratori (16.392 euro contro 24.592 euro).

Molti di loro lavorano nell’agricoltura, nel commercio, nell’edilizia, nel settore della cura domestica. Gran parte dei concorsi per lavorare nella pubblica amministrazione, cioè uno dei principali datori di lavoro in Italia, è riservata ai cittadini comunitari.

(Cecilia Fabiano/ LaPresse)

Nei settori citati gli stipendi non sono molto alti, e questa è una ragione per cui alcuni di loro non hanno né un permesso ufficiale per “soggiornanti di lungo periodo”, ma solo permessi più brevi, né possono ambire a chiedere la cittadinanza dopo dieci anni di residenza: per avviare le pratiche serve un reddito minimo imponibile di 11.878,10 euro, per una coppia con un figlio o una figlia. I compensi in nero, ovviamente, non contano.

I “soggiornanti di lungo periodo” vivono e lavorano da molti anni in Italia, ma non possono votare: né alle elezioni nazionali né a quelle del comune in cui vivono, per effetto di una legge del 1996 che permette di votare agli stranieri in Italia soltanto alle elezioni comunali o europee, e solo se sono cittadini di un paese dell’Unione Europea. È una condizione che in un recente articolo su Avvenire il demografo Gianpiero Dalla Zuanna ha paragonato a quella delle donne italiane prima del 1946: «contribuiscono a determinare alcune cifre elettorali calcolate sui residenti, come il numero di eletti nelle assemblee, ma non possono eleggere i loro rappresentanti, né essere eletti».

K. è arrivata in Italia quando aveva un anno e mezzo, e ha fatto tutte le scuole in Italia. Quando aveva 13 anni, dopo dieci anni di residenza regolare, i suoi genitori avviarono le pratiche per farle ottenere la cittadinanza italiana. Suo padre però si ammalò e morì. Da allora sono passati dieci anni e K. non ha ancora ottenuto la cittadinanza, sebbene viva in Italia da più di vent’anni. Negli anni successivi alla morte di suo padre, sua madre non era più riuscita a raggiungere la soglia minima di reddito per proseguire nella richiesta. Ora K. lavora per conto suo, la sua richiesta è stata accettata e forse fra tre o quattro anni – sono i tempi reali in cui la si ottiene, dopo che la richiesta è stata accettata – potrà infine votare, alla soglia dei trent’anni.

Per quanto riguarda la provenienza, è utile ragionare sulle persone che hanno ottenuto la cittadinanza da poco, in gran parte ex “soggiornanti di lungo periodo”.

Ancora oggi infatti la residenza è il percorso più comune per ottenere la cittadinanza: più del matrimonio con una persona italiana o dello ius sanguinis, per discendenti alla lontana di italiani, nonostante quest’ultimo abbia avuto un aumento considerevole negli ultimi anni, aumento a cui hanno contribuito soprattutto persone argentine e brasiliane con lontani parenti italiani.

Nel 2023 infatti il 70 per cento delle persone che hanno ottenuto la cittadinanza in Italia è diventato italiano così, cioè ne hanno fatto richiesta dopo 10 anni di residenza regolare, oppure sono figli di genitori che l’hanno ottenuta. In Italia infatti la legge prevede che se un adulto ottiene la cittadinanza la può passare automaticamente anche ai suoi figli o figlie minorenni.

Un grafico dell’ISTAT sui percorsi per ottenere la cittadinanza in Italia dal 2011 al 2023

Nel 2023 sono diventati cittadini italiani circa 196mila stranieri non comunitari. Le persone contrarie a un rilassamento delle norme per diventare cittadini italiani citano spesso il fatto che l’Italia è il secondo paese che concede nuove cittadinanze, secondo solo alla Spagna. È un’opinione legittima, ovviamente, ma questo dato è in qualche modo gonfiato dai discendenti di italiani che chiedono la cittadinanza con lo ius sanguinis: nel 2023 sono stati circa 30mila.

Di queste 196mila persone il 16,2 per cento è albanese, il 14,2 per cento marocchino, e il 5 per cento indiano, ma i paesi di provenienza sono diverse decine. La quota più alta di albanesi e marocchini si spiega col fatto che sono stati fra i primi ad arrivare in Italia quando ancora il paese non era una meta di migrazione, all’inizio degli anni Novanta.

Non è possibile sapere come e in quali condizioni i “soggiornanti di lungo periodo” siano arrivati in Italia: alcuni sono arrivati qualche anno fa, quando i criteri di ingresso erano più morbidi. Altri (sempre meno) sono arrivati grazie a un permesso di lavoro. Diversi sono arrivati via mare, senza documenti, e hanno poi regolarizzato la propria posizione grazie a sanatorie o al “decreto flussi”, che spesso serve proprio a questo, piuttosto che a fare entrare lavoratori e lavoratrici straniere.

Alcune persone sbarcano dalla nave della ong Open Arms ormeggiata al porto di Messina (AP Photo/Petros Karadjias)

A prescindere da come e quando siano entrati in Italia, negli anni successivi non possono tornare nel proprio paese, se non per brevissimi periodi. Alcuni lo evitano del tutto. Anche i trasferimenti da una città italiana all’altra sono rischiosi, in vista di una futura richiesta di ottenere la cittadinanza. «Se anche per dieci anni sei stato in Italia ma c’è un buco nella tua residenza all’anagrafe, intanto la domanda te la respingono», dice Filippo Miraglia, vicepresidente di Arci e responsabile della sua area immigrazione.

Miraglia aggiunge che nella sua esperienza è un problema che riguarda soprattutto i figli minorenni di genitori separati: quando il ministero dell’Interno, che si occupa di esaminare le richieste per la cittadinanza, non riesce a ricostruire dove ha abitato per un certo periodo un bambino, presume che sia stato portato all’estero e che quindi non abbia i requisiti per ottenere la cittadinanza. «Ne vediamo molti, di questi casi», dice.

Secondo la stima di IDOS fra le persone che potrebbero fare richiesta subito se vincesse il “Sì” al referendum sulla cittadinanza, circa un quinto – più di  280mila – sono minorenni. E sono loro, spesso, a trovarsi nelle situazioni più sgradevoli per via della legge attuale.

Al momento i minori nati in Italia da genitori stranieri possono chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni. Anche nel caso siano arrivati da piccoli, diciamo entro i sei anni, nel migliore dei casi ottengono la cittadinanza intorno a quell’età. Devono infatti aspettare che uno dei propri genitori abbia vissuto in Italia regolarmente per dieci anni, abbia fatto richiesta, e ottenuto regolarmente la cittadinanza: in tutto, passano circa 13-14 anni.

Significa che molti di loro passano l’infanzia e l’adolescenza, un periodo molto delicato della crescita, in una condizione di inferiorità rispetto a chi come loro è nato e cresciuto in Italia, frequenta le scuole italiane, parla italiano, si sente italiano, ma a differenza loro ha anche la cittadinanza.

«Privare per anni della cittadinanza i ragazzi che sono arrivati da piccoli o sono nati qui è un limite che pesa sul loro percorso di integrazione», dice Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas, «perché genera in loro un senso di rabbia, di diminutio rispetto agli altri». Peraltro in tutta Europa si sta cominciando a porre con insistenza il tema dei ragazzi e delle ragazze di seconda generazione, per cui spesso non sono previsti percorsi di inclusione e integrazione a pieno titolo nelle società europee: a cominciare dalla cittadinanza.

E. è arrivata in Italia quando aveva 8 anni. «Fin da quando sono qui ricordo di avere avuto a che fare con questure e documenti», racconta, dato che spesso agli appuntamenti per il rinnovo del permesso di soggiorno bisogna presentarsi con tutta la famiglia. «Sono posti in cui ti trattano come un numero, e se poi ti manca una fotocopia ti urlano addosso. Da quando sono arrivata in Italia conosco termini come idoneità alloggiativa, foglio di via: non mi sembra normale, che una bambina li conosca».

Oltre alle giornate in questura, E. ricorda anche una sensazione costante di trovarsi in «una specie di limbo», sospesa fra una vita da italiana di fatto e l’assenza di un documento che lo certificasse, in cui ci si chiede in continuazione: ce la farò, ad ottenere la cittadinanza?

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