Tutti i problemi della Gaza Humanitarian Foundation
L'ong voluta da Israele per distribuire il cibo nella Striscia potrebbe diventare un altro strumento per usare la fame come arma contro i palestinesi

Una ong creata da finanziatori sconosciuti e in collaborazione con Israele per controllare la distribuzione del cibo ai palestinesi di Gaza, la Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), ha cominciato lunedì le sue operazioni dentro alla Striscia in un clima di critiche e di scetticismo sulle sue reali intenzioni.
La Ghf ha detto che nel suo primo giorno ha distribuito 8mila scatole di cibo, che dovrebbero equivalere a 462mila pasti: secondo quanto si può vedere da alcuni video diffusi sui social contengono prodotti come riso, farina, pasta, biscotti, olio d’oliva, fagioli in scatola e zucchero. Le consegne sono avvenute in due punti alla periferia di Rafah, la città più a sud della Striscia. Nel corso della giornata uno dei due punti di distribuzione ha dovuto interrompere temporaneamente l’attività per far dissipare la calca creata da migliaia di persone palestinesi che cercavano di raggiungere il punto di distribuzione. Secondo diversi testimoni dei soldati dell’esercito israeliano hanno sparato vari colpi nelle vicinanze della folla: diverse persone sono state ferite e molte altre sono scappate.
I problemi erano iniziati già prima dell’inizio delle attività. Domenica il direttore della Ghf, Jake Wood, si era dimesso ed è stato rimpiazzato da un manager temporaneo. Wood è un ex marine americano che prima si era occupato per anni con una sua ong, la Team Rubicon, di soccorso alle popolazioni colpite da catastrofi: era quindi un nome di prestigio nel settore. Ha lasciato il suo incarico alla Gaza Humanitarian Foundation alla vigilia dell’inizio della distribuzione del cibo dentro Gaza perché, ha detto, si è reso conto che non può farlo secondo i propri princìpi di umanità, imparzialità e indipendenza.
Sempre domenica le autorità svizzere hanno detto che potrebbero cominciare un’indagine sulla Ghf, registrata in Svizzera a febbraio, per capire se ci sono violazioni della legge. In sintesi vogliono capire se la Fondazione si è registrata come organizzazione umanitaria ma è un’altra cosa.

Palestinesi trasportano scatole fornite dalla Gaza Humanitarian Foundation a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, il 27 maggio 2025 (AP Photo/Abdel Kareem Hana)
Secondo un piano che doveva essere riservato ma è finito sui media, la Fondazione dovrebbe sostituire completamente la capillare rete di distribuzione dei viveri formata da 400 siti sparsi in tutta la Striscia e gestiti da circa 200 ong internazionali. I siti di distribuzione previsti dalla Ghf sono invece soltanto quattro, tutti concentrati nel sud della Striscia.
In generale, il problema della Ghf è che potrebbe diventare uno strumento del governo israeliano per usare la fame come arma contro i palestinesi. A partire dal 2 marzo il governo israeliano ha bloccato l’arrivo di cibo, medicinali e carburante alla popolazione di Gaza perché, sostiene, questi erano presi e poi rivenduti da Hamas. Dopo dieci settimane tuttavia il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ammesso che quella decisione – non far entrare cibo in un’enclave assediata dove vivono più di due milioni di persone, fra cui centinaia di migliaia di bambini – era insostenibile, se non altro per salvare la faccia con i paesi alleati. Così ha ordinato la distribuzione di una quantità di cibo modica, contro il volere di alcuni dei suoi ministri più estremisti che volevano continuare a oltranza il blocco dei viveri contro i palestinesi.
Visti più nel dettaglio, i problemi che riguardano la Ghf sono almeno quattro. Il primo è che questa fa parte di un piano originario più grande, che prevede la creazione di enormi campi sorvegliati capaci di ospitare decine di migliaia di palestinesi, chiamati Humanitarian Transition Areas (“Aree di transizione umanitarie”).
Il piano è stato ideato da un gruppo di ex funzionari dell’intelligence e della Difesa statunitensi, insieme ad alcuni uomini d’affari e al governo israeliano. Prevederebbe che i palestinesi di Gaza andassero a vivere in questi campi dopo essere passati per un esame biometrico che confermi con precisione la loro identità, per esempio con un programma di riconoscimento facciale, ma anche con altri metodi. Dentro ai campi, affidati a due compagnie di mercenari armati, i palestinesi che hanno passato l’identificazione sarebbero isolati dal resto della Striscia. Fuori dai campi, secondo il piano, proseguirebbero i combattimenti tra Hamas e l’esercito israeliano.

Palestinesi in coda per la distribuzione di cibo a Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza, il 19 maggio 2025 (AP Photo/Jehad Alshrafi)
In un documento interno della Fondazione lungo 198 pagine, scritto a novembre e visto in questi giorni dal Washington Post, c’è scritto che anche dentro alla Ghf e fra alcuni funzionari israeliani ci sono dubbi sull’operazione e si parla del rischio che le aree di transizione umanitaria siano viste come «campi di concentramento con misure biometriche». Si raccomanda inoltre di assoldare alcuni influencer arabi molto popolari sui social media per convincere la popolazione di Gaza a obbedire al piano, con la promessa che si tratti soltanto di una soluzione temporanea.
Inoltre nel documento c’è scritto che Israele dovrebbe chiedere ai governi europei, come quelli di Francia e Germania, almeno un anno di cosiddetta «non interferenza» per far funzionare il piano (questo ci permette di capire che in queste cosiddette “aree di transizione” i palestinesi di Gaza dovrebbero stare almeno un anno). In pratica vuol dire che la Fondazione per far funzionare le “aree di transizione” ha bisogno che dall’esterno non arrivino proteste diplomatiche.
Il secondo problema, come già detto, è che il piano prevede quattro grandi siti di distribuzione dei viveri gestiti da una ong che non ha mai lavorato prima, e che sostituirebbe la rete capillare degli aiuti umanitari a Gaza che oggi avviene in almeno 400 piccoli siti. Sul numero finale dei centri di distribuzione affidati alla Ghf non c’è ancora certezza, ma si tratta di un cambiamento estremo rispetto alla situazione attuale. Anche alcuni funzionari israeliani, c’è scritto nel documento, erano scettici e si chiedevano se non ci fosse il rischio di calche mortali nel caso si formassero grandi assembramenti per la distribuzione del cibo.

Tende allestite nella città di Gaza, nel nord della Striscia, il 22 maggio 2025 (AP Photo/Jehad Alshrafi)
Il terzo problema è che i quattro punti di distribuzione saranno soltanto nel sud della Striscia, cosa che costringerebbe centinaia di migliaia di palestinesi ad abbandonare il nord di Gaza e spostarsi a sud per poter mangiare. Lo svuotamento del nord della Striscia è l’obiettivo dichiarato della campagna militare dell’esercito israeliano dopo la rottura del cessate il fuoco, a marzo. Collaborare con lo spostamento forzato di civili potrebbe essere considerato un crimine di guerra da una corte internazionale. Tamir Hayman, un ex direttore dell’intelligence militare israeliana, ha commentato così il piano con il Washington Post: portare un sacco da venti chili di viveri per lunghe distanze più volte a settimana «forse potrebbe funzionare su un campo da golf, ma non a Gaza».
Il quarto punto riguarda la presenza dei soldati israeliani nei centri della Ghf. In teoria l’accesso alla distribuzione del cibo dovrebbe passare attraverso corridoi sorvegliati dai militari, che userebbero test biometrici per identificare ciascun palestinese. Questo trasformerebbe la distribuzione del cibo, ancora una volta, in uno strumento di controllo nelle mani dell’esercito israeliano. In questi giorni l’esercito e la Fondazione hanno raggiunto un accordo: i soldati devono stare ad almeno 300 metri dai siti della distribuzione e sembra più che altro una misura di facciata.

Un camion al varco di Erez, sul confine tra la Striscia di Gaza e Israele, a novembre del 2024 (Amir Levy/Getty Images)
La Ghf ha provato a far circolare la voce di un’intesa con le altre ong che operano a Gaza e anche con le Nazioni Unite, ma la voce è stata smentita dai diretti interessati. Anche 20 governi, e fra loro alcuni che in teoria sono presenti sulla lista dei potenziali donatori a beneficio della Fondazione come il Regno Unito e gli Emirati Arabi Uniti, hanno preso le distanze dall’operazione.
Nel documento visto dal Washington Post infine si raccomanda di minimizzare la relazione fra Ghf e Israele: la Fondazione dovrebbe evitare di apparire come «un agente (per procura) del governo israeliano», ed essere pronta a rispondere a domande su come «una ong di cui non si era mai sentito parlare prima abbia ottenuto approvazioni uniche dal governo di Israele».