La Corte costituzionale sta scrivendo una legge al posto del parlamento

Sul suicidio assistito in Italia sta accadendo da cinque anni una cosa eccezionale e sottovalutata, a causa dell'ostruzionismo della politica

di Alessandra Pellegrini De Luca

(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
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Da anni in Italia succede una cosa piuttosto eccezionale: la Corte costituzionale chiede sistematicamente al parlamento di fare una legge per regolamentare il suicidio assistito, il parlamento non la fa, e la Corte continua a intervenire con nuove sentenze che volta per volta spiegano con sempre più dettagli come dovrebbe essere regolamentata questa pratica. La Corte sta in sostanza scrivendo un pezzo di legge: «Sta facendo il lavoro sia del parlamento che del governo», dice Irene Pellizzone, costituzionalista dell’università di Milano.

Il suicidio assistito, o morte assistita, è la pratica con cui a certe condizioni ci si autosomministra un farmaco per morire. In Italia è legale dal 2019, proprio grazie a una sentenza della Corte costituzionale, ma da allora né il parlamento né il governo sono mai intervenuti per fare una legge che spieghi come debba funzionare nel concreto, nonostante numerose sollecitazioni da parte della Corte stessa. L’incertezza sul tema ha portato diversi tribunali a chiedere pareri alla Corte costituzionale, che ogni volta che si è espressa ha spiegato meglio come dovrebbe funzionare il suicidio assistito in Italia.

Quello che sta succedendo è eccezionale perché non sarebbe compito della Corte costituzionale. Normalmente le sentenze della Corte si limitano a stabilire se una legge (o una sua parte) sia o meno conforme ai principi della Costituzione, senza andare oltre (in questo caso, la pratica della morte assistita). In altre parole: le sentenze della Corte delimitano il confine di ciò che può essere legale, e sta poi al parlamento fare leggi per regolamentare e dettagliare l’ambito su cui la Corte si è espressa.

Con la morte assistita sta succedendo il contrario: è dal 2018 che la Corte chiede al parlamento di legiferare sulla morte assistita, con ripetuti inviti che il parlamento continua a ignorare. La mancanza di una legge crea da anni grossi problemi e intense sofferenze a molte persone. Ha inoltre dato origine ad atti di disobbedienza civile, cioè con cui ci si rifiuta di obbedire a una situazione legislativa ritenuta ingiusta rivendicandolo pubblicamente: alcune persone gravemente malate sono state accompagnate a morire all’estero, da altre persone che poi si sono autodenunciate chiedendo una legge che permetta più libertà di scelta sul cosiddetto “fine vita”, cioè il modo con cui ci si riferisce al periodo che precede la morte e le scelte e le questioni che lo riguardano.

– Leggi anche: Senza una legge sul fine vita

L’immobilità del parlamento sul “fine vita” è un problema da tempo: il primo atto di disobbedienza civile al riguardo risale al 2006, quando il medico anestesista Mario Riccio permise di morire a Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare, interrompendo il trattamento sanitario che lo teneva in vita. Da allora ci sono state per decenni iniziative legali, campagne e appelli inascoltati per chiedere la legalizzazione di eutanasia e morte assistita, compresa una proposta di legge di iniziativa popolare del 2013. Il parlamento ha iniziato a discutere di una legge sul tema solo nel 2016, senza concludere nulla.

Il deposito delle firme per il referendum sulla legalizzazione dell’eutanasia alla Corte di Cassazione, nel 2021 (ANSA/FABIO FRUSTACI)

La Corte costituzionale cominciò ad avere un ruolo dopo il 2017, quando con un altro atto di disobbedienza civile il politico e attivista Marco Cappato accompagnò a morire in Svizzera, su sua richiesta, Fabiano Antoniani, detto DJ Fabo, un uomo di 40 anni che dopo un incidente in auto era diventato cieco e quasi completamente paralizzato. In quel momento in Italia aiutare qualcuno a morire era considerato in qualsiasi caso un reato, quello di aiuto al suicidio, articolo 580 del codice penale: prevede una pena fra i 6 e i 12 anni di carcere.

Già in quell’occasione la Corte fece una cosa inusuale: era stata interpellata dalla Corte d’assise di Milano, che aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale su parte dell’articolo 580. La Corte costituzionale non si espresse subito, ma diede al parlamento un anno di tempo per fare una legge in materia e approvare quella che definì un’«appropriata disciplina» sulla morte assistita, per potersi poi esprimere sul caso concreto. Il parlamento non fece nulla.

L’anno successivo, il 2019, e in assenza di un’azione del parlamento, la Corte costituzionale si espresse sul caso di DJ Fabo con la storica sentenza che di fatto ha depenalizzato la morte assistita in Italia: la cosiddetta “sentenza Cappato”, che stabilì che non è sempre punibile chi aiuta qualcuno a morire, e non lo è a determinate condizioni.

Queste condizioni consistono in quattro requisiti: la persona che fa richiesta deve saper prendere decisioni libere e consapevoli, essere affetta da una patologia irreversibile, patologia che deve essere fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, e poi – ed è il requisito su cui la Corte interviene da allora – deve essere tenuta in vita da «trattamenti di sostegno vitale».

Anche nella sentenza del 2019 la Corte chiese nuovamente al parlamento di fare una legge: anche in quell’occasione il parlamento non fece nulla.

Le sentenze della Corte costituzionale sono efficaci dal giorno successivo alla loro pubblicazione e immediatamente applicative: da quel momento in poi quindi in Italia fu teoricamente possibile ricorrere a morte assistita, se in possesso dei quattro requisiti indicati dalla Corte. A suo tempo però la Corte non diede indicazioni su come dovesse intendersi un «trattamento di sostegno vitale», e prevalse un’interpretazione molto stretta di quel requisito, inteso come l’essere dipendenti da alcuni dispositivi come i ventilatori e i respiratori artificiali.

L’assenza di una legge che definisse tempi e criteri di accesso alla pratica, combinata a come veniva interpretato il requisito, creò da subito enormi problemi: varie aziende sanitarie locali che ricevevano richieste di suicidio assistito si rifiutarono di verificare la sussistenza dei requisiti per accedere, o lo fecero in tempi lunghissimi e solo dopo lunghe controversie legali avviate dagli stessi pazienti, o in altri casi si rifiutarono di fornire ai pazienti i mezzi per poter ricorrere alla pratica anche se ne avevano diritto.

Nel frattempo nel 2022 ripresero le disobbedienze civili. Lo stesso Cappato, ma anche altre persone tra cui la giornalista e bioeticista Chiara Lalli e l’attivista Felicetta Maltese, accompagnarono in Svizzera alcune persone che pur essendo lucide e avendo patologie irreversibili o terminali non erano ritenute idonee a ricorrere alla pratica in Italia: perché erano prive del requisito del trattamento di sostegno vitale, almeno per come veniva interpretato dopo la sentenza della Corte del 2019.

Filomena Gallo, Chiara Lalli, Felicetta Maltese e Marco Cappato alla stazione dei carabinieri di Santa Maria Novella, a Firenze (ANSA/CLAUDIO GIOVANNINI)

Le ultime sentenze in cui la Corte ha dettagliato e chiarito come debba essere interpretato questo requisito sono state emesse proprio a partire da questi atti di disobbedienza civile. Una è stata emessa l’estate scorsa, in risposta a una questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Firenze, dopo la disobbedienza civile di Cappato, Lalli e Maltese per aver accompagnato in Svizzera Massimiliano, un uomo di 44 anni affetto da sclerosi multipla e paralizzato in gran parte del corpo, che voleva accedere alla morte assistita ma non dipendeva da trattamenti di sostegno vitale intesi in senso restrittivo.

In quell’occasione la Corte dichiarò legittimo quel requisito, mantenendolo quindi in vigore. Precisò però che un «trattamento di sostegno vitale» non è solo un respiratore o un ventilatore meccanico, ma può essere anche una terapia farmacologica senza cui il paziente morirebbe, o anche alcune operazioni compiute da sanitari o caregiver, come l’evacuazione manuale dell’intestino o l’inserimento di cateteri urinari. In generale, la Corte precisò che cosa sia un «trattamento di sostegno vitale» va comunque interpretato caso per caso dalle aziende sanitarie locali, o da giudici se ci sono controversie legali, rispettando il diritto all’autodeterminazione dei pazienti.

Non solo: in quella sentenza la Corte costituzionale disse anche che si può ritenere un paziente dotato del requisito del trattamento di sostegno vitale anche se lo ha rifiutato, dato che ha la libertà di farlo. In altre parole, la Corte ha detto che il “quarto requisito” è valido anche se il personale medico ha ritenuto il trattamento di sostegno vitale necessario per quel paziente, senza che questo si stia sottoponendo a quel trattamento quando chiede di accedere al suicidio assistito. È un livello di dettaglio piuttosto inedito per una sentenza della Corte, che è causato dall’immobilismo del parlamento.

L’ultima volta in cui la Corte è intervenuta è stata martedì, con un’altra sentenza originata da due atti di disobbedienza civile, in questo caso entrambi di Cappato, che tra agosto e novembre del 2022 accompagnò in Svizzera per ricorrere alla morte assistita Elena e Romano, rispettivamente di 69 e 82 anni: lei malata di un tumore in stadio terminale e lui di Parkinson. Né Elena né Romano rientravano nel requisito del trattamento di sostegno vitale per come stava venendo interpretato in quel momento.

Pur essendo a uno stadio molto avanzato del proprio tumore e avendo già affrontato cicli di chemioterapia, Elena non dipendeva da un respiratore o da un ventilatore, e neppure Romano, nonostante il livello estremo di compromissione della propria mobilità e autonomia, i forti dolori muscolari e una generale condizione che gli impediva ormai di fare qualsiasi gesto quotidiano in autonomia. Avevano però entrambi rifiutato quelli che oggi, alla luce dei chiarimenti della Corte arrivati nei due anni successivi, potrebbero essere intesi come trattamenti di sostegno vitale: Elena un nuovo ciclo di chemioterapia, Romano una sonda per la nutrizione artificiale (la cosiddetta “PEG”, Gastrostomia Endoscopica Percutanea).

Dopo averli accompagnati a morire in Svizzera, Cappato si era autodenunciato per aiuto al suicidio. Il tribunale di Milano aveva poi sollevato un’altra questione di legittimità costituzionale sul requisito del trattamento di sostegno vitale, quella su cui la Corte si è espressa martedì. Anche in questo caso la Corte ha respinto la questione, ma ha ribadito  quanto detto nella sentenza dell’estate scorsa, e cioè che trattamenti di sostegno vitale possono essere anche terapie salvavita, e che il requisito è soddisfatto anche se la persona le ha rifiutate. Sono precisazioni di cui il tribunale di Milano, a cui ora tornerà la questione, potrebbe tener conto per decidere se avviare o meno il processo penale contro Cappato.

Martedì la Corte costituzionale si è spinta anche oltre: ha invitato le aziende sanitarie locali e i comitati etici territoriali ad adeguarsi a quanto previsto dalla sentenza del 2019, verificando l’esistenza dei requisiti quando ricevono richieste di persone che vogliono ricorrere al suicidio assistito. Di nuovo, la Corte ha chiesto al parlamento di fare una legge che stabilisca in modo chiaro modalità e tempi di accesso alla morte assistita.

Dal 2019 a oggi in parlamento è stato depositato un disegno di legge, su iniziativa del senatore del Partito Democratico Alfredo Bazoli: al di là del fatto che il disegno di legge è piuttosto restrittivo sui requisiti di accesso alla morte assistita e piuttosto vago sui tempi (che sono un punto molto importante per persone che hanno malattie così gravi e invalidanti), il testo è ancora fermo al Senato. È piuttosto evidente la volontà politica di non far procedere la discussione, su un tema che riguarda questioni etiche ed è quindi molto divisivo (sia all’interno della popolazione che dei partiti). Cappato lo definisce un «sabotaggio strisciante».

– Leggi anche: Senza una legge sul fine vita

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