Una popolazione amazzonica ha fatto causa al New York Times per diffamazione
Per un articolo sull'arrivo della connessione a internet in un villaggio, che era stato travisato da decine di altri media del mondo

La scorsa estate decine di testate del mondo ripresero un articolo del New York Times in cui il giornalista Jack Nicas raccontava le conseguenze, positive e negative, dell’arrivo della connessione a internet nel villaggio brasiliano in cui vivono i Marubo, una popolazione indigena di circa duemila persone a lungo isolata dal resto del mondo. In gran parte di questi articoli, i Marubo furono descritti come tecnologicamente inetti e, soprattutto, dipendenti dalla pornografia, per via di un travisamento di un passaggio secondario del reportage di Nicas.
Ora, i Marubo hanno citato in giudizio il New York Times per diffamazione, chiedendo un risarcimento di 180 milioni di dollari (equivalenti a 158 milioni di euro) per danni reputazionali dovuti da quell’articolo. Secondo l’accusa, l’articolo di Nicas «dipingeva il popolo Marubo come una comunità incapace di gestire una semplice esposizione a internet e dava risalto ad accuse secondo cui i giovani Marubo erano diventati velocemente consumatori accaniti di pornografia». I querelanti sono Enoque Marubo, uno dei capi della comunità, e l’attivista brasiliana Flora Dutra, che aveva contribuito a far arrivare la connessione internet ai Marubo.
La causa cita tra gli imputati anche il sito di notizie scandalistiche TMZ e Yahoo, sostenendo che i loro articoli avevano contribuito particolarmente ad amplificare e distorcere la storia raccontata dal New York Times: TMZ, in particolare, pubblicò un titolo tutto in maiuscolo che diceva: “LA CONNESSIONE DELLA TRIBÙ A STARLINK CAUSA DIPENDENZA DAL PORNO”.
– Leggi anche: La dipendenza da internet esiste?
L’articolo di Nicas, in realtà, parlava soprattutto di come era cambiata la vita dei Marubo nove mesi dopo l’arrivo di Starlink, il servizio internet satellitare di SpaceX, azienda aerospaziale di Elon Musk, e menzionava la parola «pornografia» soltanto due volte. La prima volta compariva in un generale elenco dei pericoli che i Marubo potevano incontrare in quanto nuovi utenti di internet. Il secondo riferimento alla pornografia compariva nella testimonianza di Alfredo Marubo, un altro capo della comunità (tutte le persone che ne fanno parte usano lo stesso cognome), secondo cui alcuni giovani avevano condiviso materiale pornografico via WhatsApp. Questa informazione era presentata come una novità notevole vista la riservatezza tipica dei Marubo, che sono soliti evitare di baciarsi in pubblico, per esempio.
Per il resto, l’articolo di Nicas si concentrava sulle richieste di connessione a internet da parte dei Marubo, dei benefici portati dalle antenne di Starlink e di altri inevitabili rischi legati a questo strumento.
Dopo che la notizia della presunta dipendenza dal porno sviluppata dai Marubo aveva cominciato a diffondersi, peraltro, lo stesso Nicas aveva pubblicato una precisazione sul New York Times, intitolata: “No, non è vero che una tribù remota dell’Amazzonia è diventata dipendente dal porno”. L’articolo riconosceva che la notizia falsa – comparsa in almeno un centinaio di testate da tutto il mondo, dalla Germania all’Indonesia, all’Italia – era arrivata anche in Brasile, dove «la diceria si è diffusa velocemente, anche nelle piccole città amazzoniche dove alcuni Marubo vivono, lavorano e studiano», mettendoli in difficoltà.
In risposta alla causa, un rappresentante del New York Times ha detto che l’articolo non ha mai affermato in alcun passaggio che i membri della popolazione indigena fossero diventati dipendenti dal porno: «Qualsiasi lettura obiettiva dell’articolo in questione giungerà alla conclusione che è un’analisi delicata e sfumata dei vantaggi e delle complicazioni delle nuove tecnologie in un remoto villaggio indigeno».
Secondo i querelanti, però, l’articolo di Nicas avrebbe comunque contribuito ad alimentare «una tempesta mediatica globale» contro la piccola popolazione indigena, che sarebbe stata poi sottoposta a «umiliazioni, molestie e danni irreparabili alla loro reputazione e sicurezza».
– Leggi anche: Cosa è successo nella città dove hanno vietato gli smartphone fino ai 14 anni