La bizzarra difesa del PD alla cittadinanza italiana per i bisnipoti all’estero
Con una retorica un po' nazionalista e molti omaggi a uno storico esponente dell'estrema destra

Martedì la Camera ha approvato in via definitiva il decreto-legge promosso dal governo, e in particolare dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, che regolamenta in maniera più restrittiva il riconoscimento della cittadinanza italiana per chi vive all’estero. La legge ha aggiornato la normativa finora in vigore, che era stata approvata nel 1992 su iniziativa del ministro degli Esteri di allora, Giulio Andreotti: l’obiettivo fondamentale del provvedimento è limitare abusi e richieste strumentali di cittadinanza da parte di persone che vantano lontani, spesso lontanissimi avi di origini italiane, con l’intento principale di godere dei vantaggi che dà il passaporto italiano.
Il Partito Democratico, come tutti i partiti dell’opposizione, ha votato contro questo provvedimento. In parte lamentando alcune storture del testo, in parte denunciando il fatto che il governo ha deciso di ricorrere a un decreto-legge, uno strumento che limita molto la possibilità di deputati e senatori di discutere e modificare la norma. Nei loro interventi in aula però i deputati del PD hanno utilizzato in larga parte una retorica altisonante e vagamente nazionalista, che richiamava la tribolata storia dell’emigrazione italiana e il legame sentimentale tra le comunità di italiani all’estero e le loro radici.
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La stessa segretaria del PD Elly Schlein, intervistata a Porta a porta, ha parlato di «un paradosso», dicendo che «i nipoti delle vittime di Marcinelle non avrebbero più diritto alla cittadinanza» (il riferimento è agli italiani che morirono lavorando in una miniera in Belgio, a causa di un grosso incendio del 1956). Per la segretaria del PD, insomma, si tratta di «una stretta incomprensibile» che contraddice il fatto che «noi abbiamo sempre avuto un grande rispetto della diaspora e di chi ha portato l’Italia in giro per il mondo con tanti sacrifici».
In tutto questo c’è ovviamente il gioco delle parti che spinge le opposizioni a votare contro i provvedimenti di maggioranza anche quando ne condividono alcune parti. Per certi versi però è comprensibile che il PD sia affezionato alla legge del 1992. Da quella norma dipende infatti anche il funzionamento del voto all’estero, riconosciuto appunto solo a chi ha la cittadinanza italiana: e dei 12 seggi parlamentari assegnati nelle circoscrizioni estere, alle elezioni politiche del 2022 il PD da solo ne ha ottenuti 7. Nello specifico: 4 su 8 alla Camera, e 3 su 4 al Senato.
È una cosa che succede ormai da molti anni: un po’ perché l’elettorato residente all’estero, tranne che in Sudamerica, è tendenzialmente più progressista; e un po’ per la rete di circoli e associazioni di cui il PD dispone in giro per il mondo. Il tutto, a dispetto delle frequenti accuse di procedure poco trasparenti e dei fenomeni di diffuso clientelismo tra le comunità italiane, specie nel Sudamerica, che però riguardano un po’ tutti i partiti.
Era però meno scontato che, nel difendere la vecchia legge sulla cittadinanza del 1992 e le sue conseguenze sul sistema elettorale, i deputati del PD decidessero di elogiare in maniera sperticata il principale promotore della legge sul voto degli italiani all’estero, e cioè Mirko Tremaglia. Nato a Bergamo nel 1926, Tremaglia è stato uno storico esponente dell’estrema destra italiana, senza mai rinnegare la sua adesione alla Repubblica di Salò, lo stato fantoccio creato da Benito Mussolini col fondamentale sostegno di Adolf Hitler nel Nord Italia nel settembre del 1943.
Dopo la fine della guerra, aderì al Movimento sociale italiano. Molta della sua esperienza politica fu segnata dall’impegno in favore delle comunità italiane all’estero, mosso anzitutto da un moto di fervore nazionalista. Tremaglia divenne deputato nel 1972, e infine venne nominato ministro per gli Italiani all’estero da Silvio Berlusconi nel 2001. Fu proprio in questa veste che riuscì a far approvare una legge che già due anni prima aveva proposto e con la quale venne introdotto il voto all’estero: fu creata una apposita circoscrizione, suddivisa in quattro ripartizioni geografiche e con l’attribuzione di un numero fisso di seggi, e fu concesso agli italiani che risiedevano all’estero di poter votare per corrispondenza, senza dover tornare fisicamente in patria.
La legge venne approvata con una larga maggioranza trasversale, ed ebbe poi un effetto perverso, per la destra che l’aveva voluta: alle prime elezioni in cui il voto all’estero venne esercitato, e cioè alle politiche del 2006, proprio il voto degli italiani all’estero fu fondamentale per garantire al centrosinistra una maggioranza, sia pur risicata, al Senato: fu grazie alla legge Tremaglia se Romano Prodi poté ottenere la fiducia al Senato.
Ed è proprio a Tremaglia che tanti deputati del PD hanno fatto riferimento nei loro interventi in aula, martedì. Lo ha fatto Nicola Carè, calabrese residente in Australia; lo ha fatto Christian Di Sanzo, toscano residente in Texas; lo ha fatto Fabio Porta, calabrese residente a San Paolo del Brasile. Sono tutti parlamentari eletti nella circoscrizione Estero, e tutti intenzionati a rimproverare al centrodestra, e in particolare a Fratelli d’Italia, di voler contraddire la legge di un loro illustre ex collega, o di addirittura di offenderne la memoria e di svilirne l’eredità politica.
Particolarmente notevole è stato, tra gli altri, l’intervento di Piero Fassino, che ha ricordato con grande trasporto Tremaglia («importante deputato, prima del Movimento sociale e poi di Alleanza nazionale») e il suo impegno per gli italiani all’estero. «Ora voi state facendo strame di tutto questo», ha detto Fassino, rivolgendosi ai deputati di Fratelli d’Italia.
Quelli a quel punto si sono risentiti. E soprattutto si è risentito Andrea Tremaglia, nipote di Mirko. A lui, a un certo punto, il capogruppo di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami si è avvicinato dicendogli: «Ma perché devono essere quelli del PD a insegnarti chi era tuo nonno?». Tremaglia è appunto intervenuto evidenziando in modo critico «il tentativo di aggiungere, molto tardivamente, al pantheon della sinistra di questo parlamento un sottotenente della Repubblica sociale italiana, mai pentito di questa sua scelta». È stata una provocazione, fatta in reazione ai vari interventi un po’ pretestuosi degli esponenti del PD, che ha generato poi ulteriori polemiche.
Sia per la scelta nel merito, sia per come è stato condotto il dibattito in aula, ci sono stati poi vari deputati del PD che hanno preferito non votare, anche tra quelli molto vicini a Schlein, lasciando l’aula con scuse più o meno plausibili al momento opportuno.