Non è una novità che un governo inviti ad astenersi a un referendum
Si è fatto a destra e a sinistra e l'hanno fatto anche importanti cariche istituzionali: spesso non porta bene

Nelle ultime settimane i principali partiti di governo stanno facendo campagna per l’astensione, in vista dei referendum dell’8 e del 9 giugno. Il primo a invitare esplicitamente gli italiani a non andare a votare è stato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, leader di Forza Italia. Dopo di lui lo hanno fatto anche esponenti di Lega e Fratelli d’Italia. Ma forse le dichiarazioni che hanno generato maggior clamore sono state quelle di Ignazio La Russa, presidente del Senato, che ha detto: «Farò propaganda affinché la gente se ne stia a casa».
La questione della partecipazione, in un referendum abrogativo, è fondamentale: solo se più della metà degli elettori va a votare il referendum è valido. I partiti di centrosinistra, e ancor più il sindacato della CGIL, che è il principale promotore di 4 dei 5 referendum indetti per l’inizio di giugno, hanno criticato duramente queste prese di posizione: disapprovano soprattutto il fatto che ci siano importanti esponenti delle istituzioni che invitano di fatto all’astensione, cioè al distacco da una pratica democratica tra le più importanti com’è quella del voto.
– Leggi anche: Cosa spera di ottenere Elly Schlein dai referendum
In realtà è assai frequente che rappresentanti del governo, e talvolta anche delle più alte istituzioni repubblicane, suggeriscano agli elettori di non votare ai referendum, come dimostrano casi più o meno recenti: la via dell’astensionismo è infatti la più facile e la più utile, per chi è contrario all’approvazione dei quesiti su cui si vota.
Il precedente più noto è quello del 1991. Bettino Craxi, leader del Partito Socialista Italiano (PSI) e principale protagonista della politica italiana degli anni Ottanta, ripeté in più occasioni il suo invito ad «andare al mare» rivolto agli italiani, suggerendo così di non votare al referendum del 9 giugno di quell’anno promosso da un comitato guidato dal democristiano Mario Segni. Il quesito era di per sé piuttosto tecnico: proponeva in sostanza di ridurre a 1 il numero di preferenze che si potevano esprimere sulla scheda elettorale alle elezioni politiche. Ma era in realtà una prima importante iniziativa per trasformare il sistema elettorale italiano da proporzionale a maggioritario, e soprattutto per ridurre la deriva clientelare che la logica delle preferenze – quando cioè si vota per una specifica persona, oltre che per un partito – aveva contribuito a diffondere.
Craxi era convinto dell’insuccesso del referendum, e lo giudicò in modo liquidatorio: lo definì «incostituzionalissimo», «un caso di ubriachezza politica molesta». Ma nel corso della campagna referendaria, quella proposta di una semplice modifica alla legge elettorale assunse i connotati di una battaglia contro la partitocrazia, contro un sistema di potere consolidato che ruotava proprio intorno all’accordo tra socialisti e democristiani, e addirittura contro le ingerenze della criminalità organizzata nella politica: di tutto questo, anche in virtù della sua campagna per l’astensione, Craxi divenne il simbolo.
Sostennero con lui l’astensione solo la Lega di Umberto Bossi e una parte della Democrazia Cristiana, che ufficialmente però lasciò libertà di voto ai suoi elettori. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga disse di voler andare a votare, ma giudicò del tutto legittima la campagna per l’astensione. Per il Sì, invece, si creò uno schieramento trasversale che andava dal Partito dei democratici di sinistra fino al Movimento sociale italiano di estrema destra, dalla CGIL a Confindustria, passando per giornalisti di vario orientamento (da Giorgio Bocca a Bruno Vespa, allora direttore del Tg1).
Alla fine il referendum fu un trionfo: votarono 29,6 milioni di persone, il 62,5 per cento degli aventi diritto, e i Sì furono il 95,6 per cento. Quella vittoria, ben al di là del suo valore specifico, mise in grossa difficoltà il governo di allora, guidato da Giulio Andreotti, e più in generale segnò l’inizio della crisi di quella che viene comunemente definita la Prima Repubblica (cioè il sistema di partiti politici che operò dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1994).

I manifesti elettorali diffusi dai DS per invitare all’astensione in vista dei referendum sull’articolo 18 del giugno 2003 (Il Post)
Nel 2003 ci fu invece un’insolita convergenza tra esponenti del governo di centrodestra guidato da Forza Italia di Silvio Berlusconi e i principali leader del centrosinistra: avvenne nella campagna per l’astensionismo a un referendum promosso da Fausto Bertinotti di Rifondazione comunista. Il quesito mirava in sostanza a estendere le tutele sindacali previste dal cosiddetto articolo 18 (sul reintegro al lavoro dei dipendenti licenziati) anche alle imprese con meno di 16 dipendenti.
Il governo assecondò la contrarietà di Confindustria: prima ci furono appelli per il No, poi più banalmente si sostennero le ragioni dell’astensione. Ma anche la Margherita di Francesco Rutelli fece campagna per l’astensione. A sostenerla, anche se con qualche defezione, furono anche i Democratici di Sinistra guidati da Piero Fassino. «Il referendum è dannoso; la cosa giusta è renderlo inutile non partecipando al voto», disse. Anche Sergio Cofferati, che aveva da poco lasciato la guida della CGIL, suggerì l’astensione. Fu in effetti la scelta decisamente maggioritaria: la gran parte degli italiani snobbò o sabotò i referendum – oltre che sull’articolo 18, si votava per un altro quesito proposto dai Verdi – a cui andò a votare appena il 25 per cento degli elettori.
Otto anni dopo, nel 2011, il governo di centrodestra suggerì l’astensione in vista dei 4 referendum su acqua pubblica, energia nucleare e legittimo impedimento. Berlusconi aveva inizialmente lasciato libertà di scelta agli elettori di centrodestra, esprimendo sempre giudizi critici sui quesiti (definiti «inutili e demagogici»), ma evitando di prendere esplicitamente una posizione. Il 10 giugno, due giorni prima delle consultazioni, durante una conferenza a Palazzo Chigi annunciò che non sarebbe andato a votare. Altri dirigenti di Forza Italia invitarono all’astensione. La partecipazione ai referendum però fu notevole: andò a votare poco meno del 55 per cento, oltre 27,6 milioni di persone, e la netta vittoria dei Sì fu il primo segnale di una crisi del governo che avrebbe avuto il suo esito nelle dimissioni di Berlusconi nel novembre successivo.
Quando nel 2016 fu indetto il referendum per vietare il rinnovo delle concessioni per l’estrazione di gas e petrolio in mare entro le 12 miglia italiane, fu invece il governo di centrosinistra a suggerire l’astensione. Lo fece in particolare il presidente del Consiglio Matteo Renzi, che pochi giorni prima del voto del 17 aprile descrisse l’iniziativa come «una bufala», riferendosi al fatto che nella propaganda dei comitati promotori il quesito aveva assunto un valore simbolico a favore delle rinnovabili e contro le cosiddette «trivelle», e più in generale contro il governo.
Renzi invitò all’astensione, generando le proteste di una parte della minoranza del PD, e lo fece citando però l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che un paio di giorni prima, in un’intervista a Repubblica, aveva perentoriamente sostenuto le ragioni dell’astensionismo: «Se la Costituzione prevede che la non partecipazione della maggioranza degli aventi diritto è causa di nullità, non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria», disse. Napolitano fu criticato dal Movimento 5 Stelle, il partito più impegnato a favore del referendum e che sostenne che invitare all’astensione fosse «un reato», ma anche da Fratelli d’Italia e dalla Lega, e in particolare di Matteo Salvini. Andarono a votare poco meno di 16 milioni di persone: il 31,2 per cento, e il referendum non fu valido.
L’astensione è del resto il modo più efficace di opporsi a un referendum abrogativo: da ormai trent’anni, il mancato raggiungimento del quorum è di gran lunga l’esito più ricorrente. Su 77 referendum abrogativi fin qui svolti (i primi nel maggio del 1974, gli ultimi nel giugno del 2022), è stato raggiunto il quorum in 39 occasioni: 35 di questi però sono concentrati tra il 1974 e il 1995. Da quel momento in poi, su 29 referendum solo 4 (quelli del giugno del 2011) sono stati validi (anche se poi non hanno avuto grandi effetti concreti).