I conti del Vaticano sono un disastro

Il nuovo papa dovrà gestire perdite croniche e gravi problemi di trasparenza: e prima di Bergoglio le cose andavano anche peggio

(AP Photo/Gregorio Borgia)
(AP Photo/Gregorio Borgia)
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Oltre alla nota mansione di capo spirituale della Chiesa cattolica, chiunque sarà eletto come nuovo papa dovrà occuparsi anche dei disastrosi conti economici della Santa Sede, cronicamente in rosso per via del calo delle donazioni ricevute dai fedeli, per una gestione poco accorta delle finanze e soprattutto per una serie di scandali legati alla corruzione e al riciclaggio di denaro.

Il problema è noto da decenni, e nei suoi dodici anni di pontificato papa Francesco aveva avviato una serie di riforme per rendere le finanze vaticane più trasparenti e sostenibili. Incontrando molte resistenze, aveva chiesto di ridurre le spese e di pubblicare i bilanci dei principali enti finanziari della Chiesa, cosa che fino a poco tempo fa – incredibilmente – non avveniva. Le cose sono migliorate un po’ sul piano della trasparenza, ma i conti sono ancora disastrosi.

Il problema è che le spese della Chiesa sono significativamente superiori alle entrate.

L’ultimo bilancio pubblico della Santa Sede – peraltro lungo appena 7 pagine, una sintesi che contiene inevitabilmente molte omissioni e non ne facilita la piena comprensione – è del 2023, anno in cui aveva avuto quasi 68 milioni di euro di perdite. Buona parte di queste deriva dalla cosiddetta gestione operativa, cioè da quanto serve al funzionamento ordinario della Chiesa.

Dal lato delle spese, 1 miliardo e 236 milioni di euro, ci sono le missioni, le attività del papa, i contributi a sostegno delle diocesi e il mantenimento di tutta l’enorme macchina vaticana, tra spese del personale e così via. Papa Francesco aveva più volte chiesto un contenimento delle spese e una riduzione degli stipendi.

Per questo motivo i dicasteri del Vaticano – che sono 16 in tutto, divisi per materia e competenza: in modo un po’ approssimativo si potrebbero paragonare ai ministeri di un governo – da anni sono sottoposti a un severo piano di razionalizzazione della spesa, quella che in politica si chiamerebbe spending review: ne è una conseguenza concreta il blocco del cosiddetto turn over, cioè l’assunzione di persone nuove in sostituzione di quelle che vanno in pensione.

Nel 2022 papa Francesco ha creato la segreteria per l’Economia, un dicastero sotto cui ricade tutta la responsabilità dei conti vaticani, e che ha il sostanziale potere di veto sui bilanci degli altri dicasteri. La guida lo spagnolo Maximino Caballero Ledo, che ha competenze specifiche e non è un prete: una grande novità visto che in passato anche le posizioni più tecniche venivano ricoperte da ecclesiastici senza una vera preparazione. Non è detto che il nuovo papa vorrà confermare questa scelta.

Le entrate, intanto, riescono sempre meno a coprire le spese. Tra i ricavi della Santa Sede ci sono le sue attività imprenditoriali – come le scuole, le università, gli ospedali, i Musei Vaticani – e la gestione del suo enorme patrimonio immobiliare, da cui arriva il 65 per cento delle entrate. Poi ci sono le donazioni, grande tasto dolente.

Una scalinata all’interno dei Musei Vaticani (AP Photo/Francisco Seco)

Le donazioni pesano per il 24 per cento di tutte le entrate del Vaticano e sono in calo da anni, per motivi che hanno a che fare con la crescente disaffezione verso la Chiesa e gli scandali finanziari che hanno contribuito a renderne opaca l’amministrazione agli occhi dell’opinione pubblica. Benché papa Francesco fosse generalmente popolare e apprezzato, la reputazione della Chiesa durante il suo pontificato non è cambiata abbastanza da invertire la tendenza.

Un contributo importante alle donazioni arriva dal cosiddetto “Obolo di San Pietro”, un fondo che raccoglie annualmente il denaro donato al Vaticano dai cattolici di tutto il mondo. Le diocesi raccolgono le donazioni per il Vaticano durante le funzioni religiose nella giornata di San Pietro e Paolo (il 29 giugno), ma si può donare anche nel resto dell’anno tramite il sito del fondo. Nel 2023 ci sono state donazioni per 48,4 milioni di euro, a cui si sono aggiunti 3,6 milioni derivanti dalla gestione del patrimonio del fondo. L’Obolo si occupa marginalmente anche di investimenti finanziari, e nel 2019 papa Francesco giustificò la necessità di investire le donazioni per non farle svalutare tenendole infruttuosamente «nel cassetto», «così quando si ha bisogno di dare si dà». «L’“amministrazione del cassetto” è cattiva», disse, una frase che fece molto discutere perché la pronunciò nel corso dell’ennesimo scandalo (ci arriviamo).

Nel 2023 complessivamente l’Obolo incassò un totale di 52 milioni ma ne dette al Vaticano quasi il doppio, 103 milioni di euro, soldi che trovò proprio attingendo al suo patrimonio: di questi 90 andarono direttamente a sostegno dell’attività del papa, e solo 13 a missioni umanitarie. Fu un’inchiesta del Wall Street Journal del 2019 a svelare che gran parte dei proventi dell’Obolo serviva per contribuire a ripianare il buco di bilancio della Santa Sede, e non direttamente per opere di beneficenza.

È difficile ricostruire una serie storica delle donazioni all’Obolo, che pubblica report solo da pochi anni. Lo stesso bilancio del Vaticano, però, in una piccola nota a margine dichiara che le donazioni «continuano nel loro costante declino». Il declino si vede d’altronde in modo trasparente nell’8 per mille alla Chiesa cattolica, che viene versato alla Conferenza episcopale italiana e non al Vaticano ma mostra comunque un andamento indicativo.

L’8 per mille è una parte delle imposte sul reddito a cui lo Stato italiano rinuncia, per donarla a diversi enti sulla base delle preferenze dei contribuenti. Lo scorso anno sono andati alla Chiesa cattolica 991 milioni di euro, pari al 68,6 per cento di tutti proventi dell’8 per mille: nel 2004 erano l’89,1 per cento, 20,5 punti percentuali in più che ora i contribuenti scelgono di destinare ad altri progetti.

Quanto avete letto fin qui, comunque, rappresenta la cosiddetta gestione operativa: il risultato delle attività principali e ordinarie della Chiesa, a cui si aggiungono però diverse ingenti e oscure attività finanziarie. E qui c’è la seconda parte del problema.

(Mario Tama/Getty Images)

Intorno agli investimenti del Vaticano ci sono decenni di accuse di incompetenza, opacità, corruzione e riciclaggio di denaro, tutte sfociate in grossi scandali finanziari che hanno fatto perdere alla Santa Sede centinaia di milioni di euro oltre che molta credibilità. Papa Francesco aveva impostato un’ampia serie di riforme, incontrando la resistenza delle istituzioni coinvolte: sarà interessante capire se e come il nuovo papa vorrà continuare questo percorso.

Il primo dei tre enti su cui si basa la gestione finanziaria del Vaticano – e forse anche il più rinomato per i suoi scandali – è l’Istituto per le Opere di Religione, lo IOR: è la banca del Vaticano, in cui hanno i conti correnti le organizzazioni cattoliche di tutti i tipi, dalle diocesi agli ordini religiosi, dagli ecclesiastici fino ai dipendenti laici, di cui gestisce anche gli investimenti. Nel 2023 ha gestito 5,4 miliardi di euro dei suoi clienti, generando un profitto di 30,6 milioni, secondo quanto riportato nel suo ultimo rapporto annuale: lo pubblica solo dal 2013, e prima di allora non si sapeva quasi niente di quanti soldi amministrasse e come funzionasse.

Lo IOR esiste dal 1942 e negli anni è stato accusato tra le altre cose di aver gestito l’oro dei nazisti, di aver avuto legami con la mafia e diverse associazioni criminali. Ma soprattutto è famoso per essere stato al centro del tracollo del Banco Ambrosiano, di cui il Vaticano tramite lo IOR era il primo azionista: fallì rovinosamente nel 1982 e il suo presidente Roberto Calvi, detto “il banchiere di Dio”, venne trovato morto in circostanze mai chiarite sotto il Blackfriars Bridge di Londra. Il tracollo causò un ammanco di centinaia di miliardi di lire, la valuta italiana dell’epoca, centinaia di milioni di euro di oggi.

Una sede dello IOR (AP Photo/Domenico Stinellis)

È emblematico dell’intera gestione delle finanze vaticane che il presidente dello IOR fosse l’arcivescovo statunitense Paul Marcinkus, le cui conoscenze finanziarie si limitavano a un corso accelerato di sei settimane ad Harvard. Successivamente emerse che Marcinkus era coinvolto in operazioni finanziarie con Michele Sindona, un faccendiere legato alla mafia, e in un grosso schema di riciclaggio di denaro gestito da Calvi tramite società offshore partecipate anche dallo stesso IOR.

Dopo l’ennesimo scandalo nel 2010 adottò le norme europee contro il riciclaggio. Quando papa Francesco fu eletto nel 2013, nessun’altra banca era disposta a lavorare con lo IOR per paura di finire invischiata in qualche affare losco, e rischiava di finire nella lista nera dell’autorità europea per la lotta al riciclaggio.

Papa Francesco decise così di ridurre l’influenza ecclesiastica e affidarne la gestione a dirigenti laici e specializzati: nel 2014 fu nominato presidente il banchiere francese Jean-Baptiste de Franssu, che tuttora lo presiede. Oggi lo IOR è conforme a gran parte delle regole finanziarie europee, dopo anni molto turbolenti: «La resistenza al programma di riforme di papa Francesco è stata massiccia, ma le cose allo IOR sono cambiate perché siamo stati più resistenti della resistenza stessa», ha detto qualche giorno fa al Financial Times.

Un simbolo di questa grossa opposizione interna è il trattamento ricevuto da Libero Milone, che venne nominato revisore contabile nel 2015 ma lasciò l’incarico nel 2017 dopo aver scoperto grossi ammanchi di denaro e averne chiesto conto. Milone si ritrovò l’ufficio perquisito dalla gendarmeria vaticana e iniziò un lungo contenzioso legale contro la Segreteria di Stato (il più importante organo di governo della Santa Sede) per essere stato costretto alle dimissioni.

Papa Francesco ha riformato anche il secondo pilastro della finanza vaticana, quello che ne gestisce il patrimonio finanziario ma soprattutto quello immobiliare: l’APSA, l’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica, che gestisce un patrimonio di oltre 5mila immobili, di cui circa 4mila in Italia. Di questi, il 92 per cento è nella provincia di Roma, il 2 per cento tra Viterbo, Rieti e Frosinone, il 6 per cento fuori dal Lazio. La maggior parte comunque si trova nella zona del Vaticano. Gli immobili all’estero sono invece circa 1.200 e si trovano tra Londra, Parigi, Ginevra e Losanna.

Fino al 2023 solo il 19,2 per cento degli immobili era affittato a canoni di mercato. Il restante 70,4 per cento degli immobili era affittato a canone nullo, quindi gratis, e il 10,4 a canoni agevolati. Era una gestione decisamente non profittevole e del tutto slegata dalla beneficenza: sacerdoti, cardinali, politici, giornalisti e dirigenti statali considerati vicini alla Santa Sede vivevano gratuitamente o con canoni irrisori in case e zone anche molto prestigiose. Nel 2023 papa Francesco revocò qualsiasi privilegio per gli inquilini di questi immobili.

L’APSA peraltro si occupa di tutto ciò solo dal 2021, quando papa Francesco tolse queste competenze alla Segreteria di Stato, il più importante organo di governo della Santa Sede. Accadde – avete indovinato – dopo l’ennesimo scandalo finanziario.

Fu quello che nel 2019 coinvolse il cardinale Angelo Becciu, il vice Segretario di Stato processato e condannato in primo grado per peculato, cioè l’uso illegittimo di soldi pubblici per alcuni investimenti sospetti che fece usando i soldi dell’Obolo di San Pietro e che avrebbero procurato un ammanco complessivo di 200 milioni di euro.

Il terzo e ultimo ente che si occupa dell’economia della Santa Sede è il suo fondo pensione, la cui situazione si sta aggravando per via dell’invecchiamento dei suoi assistiti (come accade anche al sistema pensionistico italiano). Papa Francesco ne aveva più volte sollecitato una riforma, inevitabilmente impopolare come ogni riforma pensionistica che serva a risanare il sistema.

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