Da due mesi Israele blocca completamente l’entrata di cibo e medicine a Gaza
Le scorte sono quasi esaurite e anche le cucine comunitarie gestite dall'ONU potrebbero chiudere entro due settimane

Dal 2 marzo, due mesi fa, Israele blocca sistematicamente l’ingresso di cibo e medicine nella Striscia di Gaza: le scorte di medicinali messe insieme durante il cessate il fuoco si sono molto ridotte, quelle di cibo sono praticamente esaurite. I quasi due milioni di palestinesi della Striscia sono di fatto assediati, oltre che bombardati quotidianamente, e le loro condizioni stanno peggiorando giorno dopo giorno.
Il governo israeliano rivendica il blocco come uno strumento per «mettere pressione» ad Hamas e spingere il gruppo a liberare tutti gli ostaggi. L’assedio e la privazione del cibo e degli altri beni di prima necessità sono però una chiara violazione del diritto internazionale.
Il cessate il fuoco a Gaza era iniziato il 19 gennaio, ma Israele lo aveva violato nella notte fra il 17 e il 18 marzo, riprendendo i bombardamenti e poi le operazioni di terra. Già due settimane prima aveva bloccato l’ingresso di generi di prima necessità. Durante il cessate il fuoco entravano circa 500 camion di aiuti al giorno, da due mesi non entra più nulla: è il periodo più lungo di blocco totale nella storia di Gaza.
Il Programma alimentare mondiale (WFP), l’agenzia dell’ONU che si occupa dell’assistenza alimentare nel mondo, ha annunciato sabato di aver esaurito le proprie scorte di cibo, da cui dipendono circa 400mila palestinesi. Dal 16 aprile l’UNRWA, l’agenzia della Nazioni Unite per i palestinesi, ha esaurito le scorte di farina.
All’esterno dei confini di Gaza ci sono 116mila tonnellate di aiuti, corrispondenti a circa 3.000 camion, pronte per essere distribuite ma bloccate dall’assedio israeliano: basterebbero per sfamare un milione di persone per oltre quattro mesi.

Un magazzino vuoto del WFP nel campo profughi di Nuseirat il 26 aprile (AP Photo/Abdel Kareem Hana)
La Striscia di Gaza ha una dimensione di circa 360 chilometri quadrati (più o meno come Malta) e da sempre dipende per lo più dal cibo proveniente dall’esterno. Juliette Touma, direttrice della Comunicazione dell’UNRWA, dice: «Gaza subisce un embargo da Israele non dall’inizio della guerra, ma da diciotto anni. Ora è diventato un assedio e la guerra ha distrutto quasi ogni forma di agricoltura interna e ha colpito non solo le persone, ma anche gli animali da allevamento, come pecore o mucche». Si coltivano ancora piccole quantità di cetrioli, pomodori, cipolle verdi e prezzemolo: ma sono poche o molto costose, anche quando si trovano per mettere insieme un’insalata bisogna spendere 20-25 euro.
Tutto il poco cibo in vendita ha prezzi elevatissimi: secondo il WFP i prezzi sono cresciuti fra il 150 e il 700 per cento rispetto a quelli precedenti alla guerra e un sacco di farina può costare il corrispondente di 150 euro. Ma la maggior parte degli alimenti, così come il gas per cucinare, semplicemente non si trova.

(AP Photo/Abdel Kareem Hana)
Le 47 cucine comunitarie gestite dall’ONU forniscono solo lenticchie, pasta o riso, e nelle ultime settimane hanno ridotto le porzioni. Entro quindici giorni potrebbero essere costrette a chiudere, come è già successo ai forni, rimasti senza farina e gas dal 31 marzo.
C’è un altro centinaio di cucine, chiamate taqiya, gestite da volontari e finanziate dalle donazioni delle comunità musulmane all’estero, ma sono nella stessa situazione. I bambini vengono spesso mandati in coda dal mattino, in attesa che i pasti siano pronti (da mesi circolano molte foto di bambini palestinesi con le pentole vuote in attesa della distribuzione). Quello che riescono a ottenere è spesso l’unico pasto della famiglia per l’intera giornata.
Da tempo la gran parte dei palestinesi di Gaza si nutre con alimenti a lunga conservazione di cui ha fatto scorta quando si trovavano: riso, piselli in scatola e zuppe in polvere sono fra i più comuni. A marzo l’ONU ha registrato 3700 casi di bambini che soffrono di malnutrizione: è un dato in crescita dell’80 per cento rispetto a febbraio ma che è solo una porzione del totale, perché l’assistenza medica raggiunge solo una parte della popolazione.
Quando ricevevano gli aiuti, le agenzie umanitarie li conservavano nei magazzini che gestiscono all’interno della Striscia. Dopo la fine del cessate il fuoco ci sono stati alcuni episodi di disordini e tentativi di assalti ai luoghi di distribuzione del cibo. Prima del cessate il fuoco c’erano stati assalti ai pochi camion a cui era permesso entrare. Le ong dicono che sono segni dell’esasperazione e della situazione drammatica della popolazione, e che gli assalti erano totalmente scomparsi nei due mesi del cessate il fuoco.

I camion bloccati sul lato egiziano del varco di Rafah, il 2 marzo 2025 (AP Photo/Mohamed Arafat)
Il blocco degli aiuti e le operazioni militari di Israele, che in alcuni casi hanno avuto come obiettivo gli ospedali, limitano anche la possibilità di assistenza medica: un terzo delle medicine e degli strumenti medici necessari è esaurito, quello che ancora c’è durerà per circa due mesi.
L’assedio è solo una parte di quello che Pierre Krähenbühl, direttore generale del Comitato internazionale della Croce Rossa, ha definito «un nuovo inferno, il cui orrore ci perseguiterà per i decenni a venire».
Attualmente circa il 69 per cento del territorio della Striscia è sotto il controllo dell’esercito israeliano, oggetto di operazioni militari e quindi di ordini di evacuazione per la popolazione palestinese: dalla fine del cessate il fuoco 420mila persone hanno dovuto trasferirsi ancora. I nuovi bombardamenti hanno anche distrutto più di 30 fra bulldozer e mezzi pesanti (in parte donati durante il cessate il fuoco) utilizzati per raccogliere detriti, liberare alcune zone e strade, ritrovare persone rimaste sotto le macerie.
Il numero dei morti cresce quotidianamente e ha superato i 52mila: fra questi ci sono oltre 15mila bambini, 8mila donne e quasi 4mila anziani.

Un dipendente palestinese del WFP con sacchi vuoti per la farina (AP Photo/Abdel Kareem Hana)
Dice Touma, dell’UNRWA, che questa serie di «atrocità» mette in discussione anche la tenuta futura dei trattati e delle leggi condivise che la comunità internazionale si è data dopo la Seconda guerra mondiale: «Oggi è l’esercito israeliano a Gaza, domani può essere un qualsiasi altro esercito in un’altra zona di conflitto: se la legge internazionale non viene fatta rispettare qui, perché dovrebbe essere applicata in futuro altrove?».