Un amore scomodo dentro al PCI
Fu quello tra Palmiro Togliatti e Nilde Iotti, una delle tante storie del comunismo italiano raccontate da Claudio Caprara nel suo libro “Fischiava il vento”

Palmiro Togliatti, detto “il Migliore”, guidò il Partito Comunista Italiano dalla fine degli anni Venti alla metà degli anni Sessanta, passando attraverso il regime fascista, il Dopoguerra e la Guerra fredda. Nilde Iotti fu deputata del PCI per oltre cinquant’anni, dopo un passato nella Resistenza, e prima donna presidente della Camera dei deputati tra il 1979 e il 1992. Quella che li legò è forse la relazione più famosa della Prima repubblica, cominciata quando lei aveva 26 anni e proseguita tra un certo scandalo, essendo lui all’epoca sposato.
La loro storia, e molte altre della storia del Partito Comunista Italiano, sono raccontate in Fischiava il vento. Una storia sentimentale del comunismo italiano, pubblicato da Bompiani e scritto da Claudio Caprara, già autore tra le altre cose del podcast del Post L’ombelico di un mondo. È in libreria dall’8 aprile. Il capitolo da cui arriva questo estratto si intitola: “Rosso come il cuore. Nilde e Palmiro, storia di un amore scomodo”.
***
Da quanto tempo sono su quel treno? Sì, si erano fermati due notti a Praga, ma quel viaggio sembra non finire mai. Il dondolare del vagone e lo sferragliare delle ruote sulle rotaie hanno un potere ipnotico. Lo scompartimento ha dei sedili tutto sommato comodi.
Sul tavolino pieghevole ci sono i giornali e i libri che Palmiro Togliatti e Nilde Iotti stanno leggendo. In quel momento il segretario del partito è appisolato a causa del caldo eccessivo che arriva dai tubi del riscaldamento a vapore che corrono lungo il pavimento, coperti da una triste moquette. Fuori dal finestrino appannato c’è la campagna cecoslovacca coperta di neve.
Iotti guarda Togliatti appisolato e sente di provare per lui, come i primi giorni della loro relazione, lo stesso sentimento che lui aveva definito, in una dolce lettera che le aveva inviato, una “vertigine davanti a un abisso”. Un abisso che incombe spesso nella loro storia d’amore.
Mentre guarda case e alberi imbiancati dalla neve scorrerle davanti agli occhi, nella sua testa si affollano i ricordi dei cinque anni incredibili che l’hanno portata – lei, una semplice insegnante di Reggio Emilia – a diventare la donna amata dal Migliore e odiata da tanti dirigenti del PCI. Era additata come responsabile di tutte le cose che andavano male in quei tempi, e l’avevano perfino sospettata di essere una spia del Vaticano per la sua formazione e per la laurea presa all’Università cattolica di Milano dopo avere dato un esame anche con quell’ex fascista di Amintore Fanfani. E dire che suo padre, ferroviere antifascista, le aveva sempre detto: “Meglio i preti che i fascisti”.
Ripensa anche a quando il dottor Mario Spallone si era presentato a casa sua a Reggio Emilia, perché lei aveva avuto un mancamento e perso sangue… sì, aspettava un bambino, che purtroppo non vide mai la luce. A lei e a Togliatti la scoperta di quella gravidanza aveva portato grande gioia, ma anche un tormento politico: era una notizia da mantenere segreta, e infatti anche nel partito pochissimi ne erano al corrente. Avere un figlio frutto di una relazione illegittima con il segretario del partito avrebbe creato problemi enormi, sia all’interno che all’esterno del PCI. Se la faccenda fosse trapelata, si sarebbe potuta trasformare in un’arma nelle mani dei clericali durante le campagne elettorali; e una cosa del genere sembrava poco in linea anche con la campagna moralizzatrice appena proposta da Stalin sia in Unione Sovietica sia nei paesi a democrazia popolare. Dopo una storiaccia come quella, i militanti, come avrebbero potuto continuare a vedere nel segretario un modello da seguire?
Non era affatto vero, come qualcuno insinuò in seguito, che Pietro Secchia e i compagni dell’Ufficio quadri avessero suggerito o ordinato l’interruzione della gravidanza. Iotti era stata assente dalla Camera per qualche giorno. Poi, ritornata al lavoro, una mattina, incontrò Teresa Noce, una delle poche che sapeva del suo stato interessante, vicino al bagno delle donne di Montecitorio. Erano sole, e la compagna le si avvicinò per chiederle sottovoce se fosse maschio o femmina. Lei si sentì gelare. “Come? Non lo sai? È morto appena nato…” Noce fu delicata e sensibile nei suoi confronti, mentre i dirigenti del partito si dimostrarono anche in quell’occasione molto più preoccupati dello scandalo che una notizia del genere avrebbe provocato. Per quanto lei e Togliatti fossero una coppia particolare, nessuno faceva caso alla loro felicità. Insomma, nella ragion politica non c’era posto per preoccuparsi dei sentimenti.
Mentre il treno continua la sua corsa, Nilde torna a pensare al primo posto dove lei e Palmiro avevano potuto trascorrere, un po’ di tempo da soli: a quell’appartamento di tre stanze, in un angolo del sesto piano della sede del PCI in via delle Botteghe Oscure, che assicurò alla loro relazione un nido improbabile ma fondamentale.
Il segretario aveva fatto montare una porta nel corridoio, riuscendo così a creare uno spazio appartato dove si poteva avere l’illusione di essere in una casa. All’epoca l’edificio che ospitava la sede centrale del partito non aveva ancora un ascensore. Il tetto non era ben isolato, ma semplicemente coperto di catrame. Di conseguenza, durante la stagione invernale faceva un freddo tremendo e in quella estiva il caldo era insopportabile. Quel loro rifugio, insomma, era tutt’altro che confortevole, e arredato con mobili da ufficio: ma almeno lì potevano dormire insieme e condividere la quotidianità, fatta di qualche momento sereno e dei numerosi ostacoli che dovevano affrontare
Nilde Iotti era di natura una donna riservata, e soprattutto nei primi periodi del suo trasferimento a Roma dalla provincia emiliana la sua timidezza parve accentuarsi (del resto, la si poteva comprendere: eletta all’Assemblea costituente, lei si trovò a lavorare fianco a fianco con personalità che erano state i suoi miti giovanili) e fu notata dai colleghi. I quali furono colpiti anche dalla sua eleganza e dal gusto che dimostrava nello scegliere i vestiti.
Le donne comuniste di solito non badavano molto al loro abbigliamento: la clandestinità e la vita randagia le avevano abituate a indossare più che altro abiti neri, sdruciti, maglioni sformati, fazzoletti in testa e a tenere i capelli in disordine. In un certo senso, la lotta per gli ideali le aveva portate a mettere in secondo piano, per un lungo periodo, la propria femminilità e gli stereotipi, considerati stucchevoli, legati all’amore romantico.
Le relazioni nate fra compagni e compagne, dagli anni venti, prima nella clandestinità, poi al confino e infine durante la Resistenza, erano spesso rese intense da una profonda complicità e dal senso di pericolo incombente. Raramente, però, avevano potuto nutrirsi e svilupparsi nella dimensione di una “normale quotidianità”.
“Non c’era tempo per innamorarsi, per fare l’amore: veniva prima la lotta,” si legge nella memoria di un attivista emiliano. La priorità attribuita allo zelo battagliero temperava ulteriormente l’istinto di manifestare i sentimenti, considerati dai comunisti quasi alla stregua di un vezzo borghese da rifiutare. Neppure la presenza dei figli doveva interferire con l’attività politica (tanto che, per esempio, i dirigenti comunisti rifugiati in Unione Sovietica a partire dagli anni trenta e quaranta si separavano dai propri figli per farli istruire dal PCUS all’Interdom, una scuola speciale per studenti stranieri situata a Ivanovo, in Russia, a circa 300 chilometri da Mosca). Si riteneva, infatti, che ogni sacrificio personale, comprese le conseguenze più dolorose della lotta, fosse un prezzo da accettare in nome del riscatto del popolo lavoratore e della libertà.
A lungo, e anche nei primi decenni del dopoguerra, il PCI e altri partiti comunisti rimasero pervasi da un’ideologia che subordinava l’individuo al collettivo. L’etica comunista richiedeva un’adesione totale agli ideali di partito, estendendo il controllo anche alla sfera privata. Questa rigidità morale non era solo ideologica, ma anche politica: i dirigenti temevano che comportamenti considerati scandalosi potessero essere usati dalla propaganda avversaria per screditare il partito. Per questo motivo si esigeva dagli iscritti una vita privata esemplare. Tuttavia, molti alti funzionari del partito, pur essendo promotori di queste regole, non vi si conformavano pienamente. Le loro relazioni personali, sebbene irregolari, erano tollerate, a condizione che non minacciassero l’unità del partito o la sua immagine pubblica.
Ma nel caso di Togliatti, che era il segretario del PCI, il discorso si presentava assai più complicato.
© 2025 Giunti editore s.p.a., Milano